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Paradiso perduto

01.07.2022

“Meglio regnare all’inferno che servire in paradiso.
Piuttosto che essergli inferiore avrebbe preferito essere nulla.

Senza il minimo impulso né l’ombra del destino
o altro che da me fosse immutabilmente previsto
così trasgrediscono liberamente autori in ogni cosa,
giudicando e scegliendo a modo loro; per questo
li formai liberi, e liberi dovranno rimanere,
finché non si rendano schiavi da soli: altrimenti
dovrei mutare la loro natura, dovrei revocare
quell’alto decreto immutabile ed eterno col quale
la loro liberà venne ordinata; mentre è da soli
che ordinarono la propria caduta.

Me miserevole! Per quale varco potrò mai fuggire
l’ira infinita, e l’infinita disperazione?
Perché dovunque fugga è sempre inferno: sono io l’inferno.

Accanto l’astuto serpente
si insinuava, intessendo in un nodo gordiano
le sue spire intrecciate offrendo un segno
ancora inosservato dalla sua frode fatale.

Da quando hai rifiutato la bontà
la tua gloria si è persa, e ora tu assomigli solamente
al tuo peccato, e al luogo sicuro e infame della tua
dannazione.

Fra gli elementi è sempre
il più grossolano a nutrire il più puro.

Ora invece vedo che la maggior parte, per indolenza,
preferisce servire, Spiriti pronti solo ad eseguire,
addestrati nei canti e nelle feste.

Allo scopo di tenere discosti dalla mente umana i suoi principi, Dio
pose il cielo lontano dalla terra in modo che lo sguardo
terreno, così presumendo, si perderebbe in cose troppo alte,
e senza trarne il minimo vantaggio.

Il malvagio, in quell’attimo,
fu come astratto dalla sua stessa perfidia, afferrato
da stupefatta bontà, disarmato di ogni inimicizia,
d’odio e d’inganno, di invidia e di vendetta.

Io lo amo a tal punto da sopportare con lui tutte le morti,
mentre senza di lui non reggerei una vita.
La nostra condizione non si può dividere,
siamo una cosa unica, una carne, e perderti significa
perdere anche me.

All’orecchio mortale la voce di Dio è tremenda.

Perciò la legge appare imperfetta, e data solo allo scopo
di prepararli nel tempo a un’alleanza migliore, disciplinati
a passare dalle figure simboliche al vero,
dalla carne allo spirito, e dall’imposizione di leggi rigorose
alla libera accettazione di una vasta grazia
dalla paura servile al timore filiale, dagli atti legali
agli atti di fede.

Colui che viene come tuo Salvatore
non curerà la tua ferita distruggendo Satana,
ma le sue opere in te e nel tuo seme.

Aggiungi solo azioni che corrispondono alla tua sapienza,
aggiungi fede e virtù, pazienza e temperanza, aggiungi amore,
che sarà poi chiamato carità, che è l’anima di tutto:
non ti sarà penoso questo paradiso,
perché avrai un paradiso in te stesso,
e molto più felice.

Uscì balzando al suono di un turbine di vento
il carro di Dio Padre, e lampeggiava dense
lingue di fiamma, ruote nelle ruote, sospinto
dallo spirito interno che lo anima, e tuttavia guidato
da quattro forme di Cherubini. Ognuna delle quali
aveva un volto stupendo, e il corpo e le ali cosparsi
di occhi quasi che fossero stelle, perfino
le ruote di berillo erano fitte d’occhi, e fra loro
fiammeggiavano fuochi: sul capo un firmamento di cristallo
dove splendeva un trono di zaffiro, intarsiato
di purissima ambra, con i colori dell’arcobaleno.
Completamente armato d’una panoplia celeste di limpido
Urim divinamente lavorato Egli salì sul carro;
alla sua destra stava la Vittoria, con le ali d’aquila,
mentre al fianco gli pendono l’arco e la faretra
munita di tuono trifulmine, e accanto rigurgita
una violenta spirale di fumo, di fiamme che guizzano,
e spaventose faville. Avanzò accompagnato
da diecimila migliaia di santi, e da lontano
lo si vide venire risplendente, e diecimila carri
di Dio da ogni lato: questo infatti il numero
che mi fu dato di udire. Cavalcava sublime sulle ali
di Cherubino nel cielo di cristallo, sul trono di zaffiro,
illustre ovunque, e però visto per la prima volta
dai suoi fedeli; sorpresi da una gioia inaspettata
quando la grande insegna del Messia rifulse
portata alta dagli angeli, il suo segno in cielo;
e sotto quella guida rapidamente Michele ricondusse
tutto l’esercito, che prima era disperso alle due ali;
sotto il suo Comandante lo unì in un corpo unico.
Lo precedeva il Divino Potere, aprendogli la strada;
al suo comando i colli sradicato ritornarono
ognuno al proprio posto; udita la sua voce
si mossero obbedienti; il cielo rinnovò l’usato aspetto,
con fiori freschi sorrisero la valle e la collina.”

John Milton, da “Paradiso perduto”, Libro I, 1667 (Traduzione di Lazzaro Papi)

*****

Illustrazione di Gustave Doré

*****

“Dubbio, terror tutti confonde e mesce
I suoi pensier: d’inferno uscito invano
Egli è, l’inferno ha in cor, l’inferno intorno
Pertutto egli ha, nè per cangiar di loco
Al circondante orror più che a sè stesso
Può un sol passo involarsi. Il già sopito
Suo disperar di coscïenza al fero
Grido or si sveglia, e la mordace idea
Di quel ch’ei fu, di quel ch’egli è, di quello
Che in avvenir sarà, delle più gravi
Pene che sempre a maggior colpe aggiugne
La giustizia infallibile del cielo,
L’ange e spaventa. I dolorosi sguardi
All’Eden che fiorito e fresco e vago
Gli s’appresenta, or ei rivolge, ed ora
Al cielo, e al sol che in cima arde e lampeggia
Dell’alta sua meridiana torre;
Quindi così del cor l’ambascia cupa
Esalò sospirando: O tu, che cinto
Di tanta gloria, spazïando vai
Solo Signor lassù, che sembri Nume
Di questo nuovo mondo, e in faccia a cui
La scema fronte ogn’altra stella asconde,
Mi volgo a te, ma non con voce amica
Io già mi volgo, ed il tuo nome aggiungo,
O sol, per dirti in qual dispetto io m’abbia
I raggi tuoi che mi rammentan quale
Fosse il grado ond’io caddi, e la tua spera
Quant’io di gloria e di splendor vincessi.
Oimè! da quale stato un cieco orgoglio
Precipitommi! Io contro il re del cielo,
Io contro lui che paragon non ave,
Osai levar lassù la fronte e l’armi?
E perchè mai? No, tal ricambio invero
Ei non mertò da me, da me che a tanta
Altezza avea creato, ei che i suoi doni
Non mai rimproverò, che lievi e dolci
Servigi sol chiedeva, animo grato
E sacre laudi. E qual men grave omaggio
E qual più giusto? Eppur maligno tosco
Furo al mio core i benefici suoi,
E sol dier di nequizia orrido frutto.
Innalzato cotanto, a sdegno io presi
Lo star suggetto; un sol varcato passo
Credei che fatto a lui m’avrebbe eguale,
E il pondo insofferibile di mia
Riconoscenza per le grazie, ond’egli
Ognor mi ricolmava, a un tratto scosso
Avrei così da me; nè seppi allora
Che un grato cor, mentre confessa il dono,
Più debitor non è. Qual era dunque
Il mio gravoso incarco? Ah! se locato
Egli m’avesse in men sublime seggio,
Felice ancor sarei, né spinte avrebbe
Una sfrenata ambizïosa speme
Sì lungi le mie brame. E se qualch’altro
Al par di me possente Angelo osava
Tentar la stessa impresa e me con seco
A sua parte traea? Ma che! son forse
Cadute altre Possanze a me simili,
E ferme e fide non si serban contro
Ogn’inganno, ogni assalto? Al par di quelle
Libera volontà fors’io non ebbi
Ed ugual forza? Ah! sì. Di che mi lagno
Dunque? Chi dunque accuserò? Quel Dio
Che fu d’eguale amor, di doni eguali
Largo con tutti? Maledetto dunque
Quell’amor e quei doni, a me, del pari
Che il feroce odio suo, cagion fatale
D’interminabil duolo; anzi in eterno
Maledetto io medesmo, il cui volere,
Contro il voler di lui, libero scelse
Questa ch’or merto e provo acerba sorte.
Dove, misero me! dove sottrarmi
All’immensa ira sua? Dove allo stesso
Mio furor disperato? Ovunque io fugga,
Trovo l’inferno, anzi del core in fondo
Meco lo porto: ivi un più cupo abisso
Di quell’abisso atroce in cui m’ha spinto
Il mio delitto, si spalanca, e tanto
Lo supera in orror che bello e dolce
L’inferno stesso è al paragone. Ah! cedi,
Cedi, Satáno, alfin. Che! loco alcuno
Al pentimento ed al perdon non resta?
No, se sommesso in pria, se umìl… Che dico?
Umil, sommesso io mai? Qual onta! Ah! furo,
Fra quei Spirti laggiù da me sedotti,
Ben altro fur le mie promesse e i vanti.
Io che l’Eterno a rovesciar dal solio
Bastante m’affermai, potrei fra loro
Servo e di servitù nunzio tornarmi?
Oimè! ch’essi non san quanto una vana
Mi costi ombra di gloria! essi non sanno
Fra quali angosce internamente io gema,
Mentre da lor sull’infernal mio solio
Adorato m’assido! A me che giova
Scettro e corona, se più ch’altri appunto
Io ruino perciò nel cupo centro
Di tutte le miserie e son supremo
Sol negli affanni? O ambizïon, son queste
Le gioie tue? Ma se a pentirmi ancora
Scender potessi, e col perdono il mio
Racquistar primo stato, i sensi alteri
In me rigermogliar quella grandezza
Non faría tosto, e tutto aver a sdegno
Quanto giurò mendace ossequio? I voti
Che duolo e forza mi svellea dal labbro,
Quai nulli e vani la cangiata sorte
Tutti terrebbe. No, rinascer vera
Amistade in quel cor non può giammai,
In cui d’odio mortal fur sì profonde
Ferite impresse. A più fatal caduta
Io sol risorgerei, la breve tregua
A prezzo d’addoppiati aspri tormenti
Solo comprata avrei. Ben sallo il mio
Sagace punitor che a darmi pace
Tanto avverso è perciò quant’io mi reco
A dispetto il cercarla! Or ecco, invece
Di noi cacciati in crudo esiglio indegno,
Ecco creato l’uom, tenero oggetto
Delle sue cure; ecco d’un mondo intero,
Liberal largitor, gli ha fatto il dono.
Fuggi dunque, o speranza, e tu con essa
Fuggi, o timor, da questo sen; fuggite,
Vani rimorsi miei; per me in eterno
È perduto ogni ben: tu solo, o male,
Sii mio sol bene omai; per te diviso
Col re del cielo almen tengo l’impero,
E più che la metà saprò fors’anco
Occuparne per te. Vedrai bentosto,
Uomo odïato, e tu, novello mondo,
La possa di Satán. – Mentr’ei sì parla,
Fera procella gli dibatte il core,
E un lurido pallor d’invidia e rabbia
E disperazïon gl’infosca il volto
A vicenda tre volte. Ad ogni sguardo
Le scompigliate sue mentite forme
Lo avrìen scoperto: chè sereni e sgombri
Da sì sconce tempeste il cor, la fronte
Hanno i Celesti ognor.”
John Milton, da “Il Paradiso perduto”, Libro IV, 1667 (Traduzione di Lazzaro Papi)
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Nell’immagine: Johann Heinrich Füssli, “Il sogno del pastore”, 1793

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