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Testamenti poetici

20.09.2022
“Abramo di Santa Chiara racconta di un ricco che alla sua morte costituì erede di tutte le sue sostanze un solitario. Il solitario quando lo venne a sapere, rispose: «Deve trattarsi di uno sbaglio: com’è possibile ch’egli mi costituisca suo erede se sono morto molto tempo prima di lui?»”
Søren Kierkegaard, da “Diario”, 1834/55 (postumo 1909/49) 
 
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Brano dal mio testamento
“Non voglio che tu sia lo zimbello del mondo.
Ti lascio il sole che lasciò mio padre
a me. Le stelle brilleranno uguali, e uguali
t’indurranno le notti a dolce sonno,
il mare t’empirà di sogni. Ti lascio
il mio sorriso amareggiato: fanne scialo,
ma non tradirmi. Il mondo è povero
oggi. S’è tanto insanguinato questo mondo
ed è rimasto povero. Diventa ricco tu
guadagnando l’amore del mondo.
Ti lascio la mia lotta incompiuta
e l’arma con la canna arroventata.
Non l’appendere al muro. Il mondo ne ha bisogno.
Ti lascio il mio cordoglio. Tanta pena
vinta nelle battaglie del mio tempo.
E ricorda. Quest’ordine ti lascio.
Ricordare vuol dire non morire.
Non dire mai che sono stato indegno, che
disperazione m’ha portato avanti e son rimasto
indietro, al di qua della trincea.
Ho gridato, gridato mille e mille volte no,
ma soffiava un gran vento, e pioggia, e grandine:
hanno sepolto la mia voce. Ti lascio
la mia storia vergata con la mano
d’una qualche speranza. A te finirla.
Ti lascio i simulacri degli eroi
con le mani mozzate, ragazzi che non fecero a tempo
ad assumere austera forma d’uomo,
madri vestite di bruno, fanciulle violentate.
Ti lascio la memoria di Belsen e di Auschwitz.
Fa’ presto a farti grande. Nutri bene
il tuo gracile cuore con la carne
della pace del mondo, ragazzo, ragazzo.
Impara che milioni di fratelli innocenti
svanirono d’un tratto nelle nevi gelate
in una tomba comune e spregiata.
Si chiamano nemici: già! I nemici dell’odio.
Ti lascio l’indirizzo della tomba
perché tu vada a leggere l’epigrafe.
Ti lascio accampamenti
d’una città con tanti prigionieri:
dicono sempre sì, ma dentro loro mugghia
l’imprigionato no dell’uomo libero.
Anch’io sono di quelli che dicono, di fuori,
il sì della necessità, ma nutro, dentro, il no.
Così è stato il mio tempo. Gira l’occhio
dolce al nostro crepuscolo amaro.
Il pane è fatto pietra, l’acqua fango,
la verità un uccello che non canta.
È questo che ti lascio. Io conquistai il coraggio
d’essere fiero. Sforzati di vivere.
Salta il fosso da solo e fatti libero.
Attendo nuove. È questo che ti lascio.”
Kriton Athanasulis, “Brano dal mio testamento”
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Testamento

“Si overo more ‘o cuorpo sulamente

e ll’anema rinasce ‘ncuorpo a n’ato,

ì mo sò n’ommo, e primma che sò stato?

‘na pecora, ‘nu ciuccio, ‘nu serpente?

E doppo che sarraggio, ‘na semmenta?

n’albero? quacche frutto prelibbato?

Va trova addò staraggio situato:

si a ssulo a ssulo o pure ‘mmiez”a ggente.

Ma ‘i nun ‘e faccio ‘sti raggiunamente:

ì saccio che songh’io, ca sò campato,

cu tutt’ ‘o buono e tutt’ ‘o mmalamente.

E pè chello che songo sto appaciato:

ca, doppo, pure si nun songo niente,

saraggio sempe ‘n ‘ommo ca sò nato.

(“Se davvero muore il corpo solamente e l’anima rinasce nel corpo di un altro, io adesso sono un uomo e prima cosa sono stato? Una pecora, un asino, un serpente? E dopo, che sarò, un seme? Un albero? Qualche frutto prelibato? Chissà dove sarò, se solo solo oppure in mezzo alla gente. Ma io non faccio questi ragionamenti: io so chi sono, che sono vissuto, con tutto il bene e tutto il male. E’ per questo che sono in pace: che dopo, anche se non sono niente, sarò sempre l’uomo che son nato.”)

Raffaele Viviani, “Testamento”

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Il testamento di un albero

 

“Un albero di un bosco
chiamò gli uccelli e fece testamento:
“Lascio i miei fiori al mare,
lascio le foglie al vento,
i frutti al sole e poi
tutti i semi a voi.
A voi, poveri uccelli,
perché mi cantavate le canzoni
della bella stagione.
E voglio che gli sterpi,
quando saranno secchi,
facciano il fuoco per i poverelli.

Però vi avviso che sul mio tronco
c’è un ramo che dev’essere ricordato
alla bontà degli uomini e di Dio.
Perché quel ramo, semplice e modesto,
fu forte e generoso: e lo provò
il giorno che sostenne un uomo onesto
quando ci si impiccò”

Trilussa

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Ballata

 

“Ai Certosini e ai Celestini,

Ai Mendicanti e alle Devote,

Ai perdigiorno e ai damerini,

Ai servitori e alle mignotte

Che portano giacchette e gonne strette,

Ai presuntuosi languidi d’amore

Che vanno fieri dei loro stivaletti,

A tutti imploro di aver misericordia.

 

Alle fanciulle che mostrano le tette

Per avere clienti in quantità,

A ladri, a mestatori,

A saltimbanchi che mostrano bertucce,

A folli d’ambo i sessi, a sciocchi e sciocche,

Che se ne vanno zufolando sei a sei

A mocciosi e mocciosette,

A tutti imploro di aver misericordia.

 

Tranne ai cani mastini traditori

Che mi han fatto rosicchiare dure croste,

Faticare sera e mattina di mascelle,

Che ora non temo più di quattro stronzi.

Farei per loro peti e grossi rutti,

Non posso, perché son seduto.

Ma in fondo, per evitare ogni contesa,

A tutti imploro di aver misericordia.

 

Che gli si spezzino tutte le costole

Con magli duri, forti e massicci,

Con verghe ben piombate e palle simili!

A tutti imploro di aver misericordia”

 

François Villon, da “Il testamento” (“Le testament” o “Le grand testament”), composto nel 1461

 

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Foto di Dario Mitidieri

 

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Testamento
“Non voglio che tu sia lo zimbello del mondo.
Ti lascio il sole che lasciò mio padre
a me. Le stelle brilleranno uguali, e uguali
t’indurranno le notti a dolce sonno,
il mare t’empirà di sogni.
Ti lascio
il mio sorriso amareggiato: fanne scialo,
ma non tradirmi. Il mondo è povero
oggi. S’è tanto insanguinato questo mondo
ed è rimasto povero. Diventa ricco tu
guadagnando l’amore del mondo.
Ti lascio la mia lotta incompiuta
e l’arma con la canna arroventata.
Non l’appendere al muro. Il mondo ne ha bisogno.
Ti lascio il mio cordoglio. Tanta pena
vinta nelle battaglie del mio tempo.
E ricorda. Quest’ordine ti lascio.
Ricordare vuol dire non morire.
Non dire mai che sono stato indegno, che
disperazione m’ha portato avanti e son rimasto
indietro, al di qua della trincea.
Ho gridato, gridato mille e mille volte no,
ma soffiava un gran vento, e pioggia, e grandine:
hanno sepolto la mia voce.
Ti lascio
la mia storia vergata con la mano
d’una qualche speranza. A te finirla.
Ti lascio i simulacri degli eroi
con le mani mozzate, ragazzi che non fecero a tempo
ad assumere austera forma d’uomo,
madri vestite a bruno, fanciulle violentate.
Ti lascio la memoria di Belsen e di Auschwitz.
Fa’ presto a farti grande. Nutri bene
il tuo gracile cuore con la carne
della pace del mondo, ragazzo, ragazzo.
Impara che milioni di fratelli innocenti
svanirono d’un tratto nelle nevi gelate
in una tomba comune e spregiata.
Si chiamano nemici: già! i nemici dell’odio.
Ti lascio l’indirizzo della tomba
perché tu vada a leggere l’epigrafe.
Ti lascio accampamenti
d’una città con tanti prigionieri:
dicono sempre sì, ma dentro loro mugghia
l’imprigionato no dell’uomo libero.
Anch’io sono di quelli che dicono, di fuori,
il sì della necessità, ma nutro, dentro, il no.
Così è stato il mio tempo. Gira l’occhio
dolce al nostro crepuscolo amaro.
Il pane è fatto pietra, l’acqua fango,
la verità un uccello che non canta.
È questo che ti lascio. Io conquistai il coraggio
d’essere fiero. Sforzati di vivere.
Salta il fosso da solo e fatti libero.
Attendo nuove. È questo che ti lascio.”
Kriton Athanasulis, “Testamento”, da “Due uomini dentro di me”, 1957

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Testamento 
Ai miei figli
“Vi lascio una scala
traballante
incompiuta
con qualche scalino rotto
alcuni marci
e più di uno
intero.
Riparatela
mettetela in piedi
saliteci sopra
salite
fino a toccare la luce.”
Claribel Alegrìa (poetessa nicaraguense), da “Voci”
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Nell’immagine: René Magritte, “Il pensiero che vede”, 1965

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