Affabulazioni

Uomini e no

13.10.2022
“L’uomo, si dice. E noi pensiamo a chi cade, a chi è perduto, a chi piange e ha fame, a chi ha freddo, a chi è malato, e a chi è perseguitato, a chi viene ucciso. Pensiamo all’offesa che gli è fatta, e la dignità di lui. Anche a tutta quello che in lui è offeso, e ch’era, in lui, per renderlo felice. Questo è l’uomo.
Ma l’offesa che cos’è? È fatta all’uomo e al mondo. Da chi è fatta? E il sangue che è sparso? La persecuzione? L’oppressione?
Chi è caduto anche si alza. Offeso, oppresso, anche prende su le catene dai suoi piedi e si arma di esse: è perché vuol liberarsi, non per vendicarsi. Questo anche è l’uomo?
[…] Ma l’offesa in se stessa? È altro dall’uomo? È fuori dall’uomo?
Noi abbiamo Hitler oggi. E che cos’è? Non è uomo? Abbiamo i tedeschi suoi. Abbiamo i fascisti. E che cos’è tutto questo? Possiamo dire che non è, questo anche, nell’uomo? Che non appartenga all’uomo?
[…] Noi vogliamo sapere un’altra cosa […] se è nell’uomo quello che essi fanno quando offendono.
È nell’uomo?
Noi vogliamo sapere se è nell’uomo quello che noi, di quanto essi fanno, non faremmo; e che noi diciamo di loro dal vederli, non da qualcosa che abbiamo patito noi stessi. Possiamo mai saperlo?
[…] E noi possiamo anche adoperare le armi loro […] combattere quello che loro sono, senza più essere quello che noi siamo.
Non essere uomini? Non essere nell’uomo?
Questo è il punto in cui sbagliamo. Noi presumiamo che sia nell’uomo soltanto quello che è sofferto, e che in noi è scontato. Aver fame. Questo diciamo che è nell’uomo. Aver freddo. E uscire dalla fame, lasciare indietro il freddo, respirare l’aria della terra, e averla, avere la terra, gli alberi, i fiumi, il grano, le città, vincere il lupo e guardare in faccia il mondo. Questo diciamo che è nell’uomo.
Avere Iddio disperato dentro, in noi uno spettro, e un vestito appeso dietro la porta. Anche avere dentro Iddio felice. Essere uomo e donna. Essere madre e figli. Tutto questo lo sappiamo e possiamo dire che è in noi. Ogni cosa che è piangere la sappiamo: diciamo che è in noi. Lo stesso ogni cosa che è ridere: diciamo che è in noi. E ogni cosa che è il furore, dopo il capo chino e il piangere. Diciamo che è il gigante in noi.
Ma l’uomo può anche fare senza che vi sia nulla in lui, né patito, né scontato, né fame, né freddo, e noi diciamo che non è l’uomo.
Noi lo vediamo. È lo stesso del lupo. Egli attacca e offende. E noi diciamo: questo non è l’uomo. Egli fa con freddezza come fa il lupo. Ma toglie questo che sia l’uomo?
Noi non pensiamo che agli offesi. O uomini! O uomo!
Appena vi sia l’offesa, subito noi siamo con chi è offeso, e diciamo che è l’uomo. Sangue? Ecco l’uomo. Lacrime? Ecco l’uomo.
E chi ha offeso che cos’è?
Mai pensiamo che anche lui sia l’uomo.
Che cosa può essere d’altro? Davvero il lupo?
Diciamo oggi: è il fascismo. Anzi: il nazifascismo. Ma che cosa significa che sia il fascismo? Vorrei vederlo fuori dell’uomo, il fascismo. Che cosa sarebbe? Che cosa farebbe? Potrebbe fare quello che fa se non fosse nell’uomo di poterlo fare? Vorrei vedere Hitler e i tedeschi suoi se quello che fanno non fosse nell’uomo di poterlo fare. Vorrei vederli a cercar di farlo. Togliere loro l’umana possibilità di farlo e poi dire loro: Avanti fate. Che cosa farebbero?”
“Pensare” uno disse. “Eravate quasi amici e ora siete uno contro l’altro.”
“Perché siamo” disse Manera “uno contro l’altro?”
“Non siete uno contro l’altro? Tu sei di qua, e lui è di là.”
“Io sono di qua, e lui di là?”
“Non sei nella milizia tu? Tu sei nella milizia e lui è contro la milizia.”
“Oggi” disse un terzo “anche due fratelli possono trovarsi uno contro l’altro.”
“Ma noi non siamo due fratelli” Manera disse.
“Pure è un esempio” disse il terzo “che è una guerra.”
Andarono avanti a parlare il primo milite e il terzo. Perché si chiamava civile una guerra in cui due fratelli civili possono trovarsi uno contro l’ altro? Non si sarebbe dovuto chiamarla, anzi, incivile?»
“Essi avevano, ognuno, una famiglia: un potrebbe su cui volevano dormire, piatti e posate in cui volevano mangiare, una donna con cui volevano stare; ei loro interessi non andavano molto più in là di questo, erano come i loro discorsi. Perché, ora, lottavano? Perché vivevano come animali inseguiti e ogni giorno esponevano la loro vita? Perché dormivano con una pistola sotto il cuscino? Perché lanciavano bombe? Perché uccidevano? Gracco era curioso degli uomini: voleva conoscere il perché delle loro cose.
“Io so che cosa vuol dire un uomo senza una donna, credere in una, essere di una, oppure non averla, passare anche anni senza che tu sia uomo con una donna, e allora prenderne una che non è la tua ed ecco avere, in una camera d’albergo avere, invece dell’amore, il suo deserto. Questo, tra i deserti è il più squallido; Non di una vita che manca, ma di una vita che non è racconto.
Avevi sete, e tu puoi bere; l’acqua c’è. Avevi fama e puoi mangiare; il pane c’è. C’è la fonte, ei palmizi intorno, similitudine a quello che cercavi. Ma è solo similitudine alla cosa, non è la cosa. Che volevi? Io mi dico. Mangio, ed è terra che mangio, non pane. Bevo, ed è terra che bevo.
Rimango chino sul letto che ho davanti; e una volta non mi spogliai nemmeno, fumai tutto il tempo, appoggiato alla spalliera dinanzi a quel deserto. L’uomo ricorda la sua sete. Oh set! Io penso. Mi sono dissetato, ma ho sete ancora, io non ho che sporcato la mia sete. E chino sul letto bevo; Penso che sono umile in questo, penso che sono inginocchiato; ma so che la mia ferocia era la mia purezza.
Perché ho avuto pietà di me stesso?
Quest’umiltà non salva un uomo. Egli non ha con se nessuno. Egli è in ginocchio non nell’amore, ma nel suo deserto.
«Vero, disse il Gracco. Egli lo sapeva, ei morti glielo dicevano. Chi aveva colpito non poteva colpire di più nel segno. In una bambina e in un vecchio, in due ragazzi di quindici anni, in una donna, in un’altra donna: questo era il modo migliore di colpir l’uomo. Colpirlo dove l’uomo era più debole, dove l’infanzia, dove la vecchiaia, dove aveva aveva la sua costola staccata e il cuore scoperto: dov’era più uomo. Chi aveva colpito voleva essere il lupo, far paura all’uomo. Non voleva fargli paura? E questo modo di colpire era il migliore che credesse di avere il lupo per fargli paura.
Però nessuno, nella folla, sembrava aver paura.
Aveva paura il Gracco? O Figlio-di-Dio? Scipione? Barca Tartaro? Non posso averne. O poteva averne Enne 2? Non poteva averne. Allo stesso modo ogni uomo che era nella folla non aveva paura.
Ognuno, appena veduti i morti, era come loro, e comprendeva ogni cosa come loro, non aveva paura come non ne avevano loro.
«Non bisogna» il vecchio disse «piangere per loro»
«No?» disse Berta.
«Non bisogna piangere per nessuna delle cose che oggi accadono».
«Non bisogna piangere?»
«Se piangiamo accettiamo. Non bisogna accettare».
«Gli uomini sono uccisi, e non bisogna piangere?».
«Se li piangiamo li perdiamo. Non bisogna perderli».
«E non bisogna piangere?».
[…] Berta non piangeva sopra i morti, per il sangue loro. Ora lo sapeva. Le veniva da loro, ma non era pietà per loro. Era pietà, o forse disperazione, su se stessa.
[…]Aveva rialzato il capo, il pianto si asciugava sulla sua faccia, e rivide nel vecchio gli occhi azzurri. Glieli guardò. «Ma che dobbiamo fare?» gli chiese.
«Oh!» il vecchio rispose. «Dobbiamo imparare».
«Imparare che cosa?» disse Berta. «Cos’è che insegnano?».
«Quello per cui» il vecchio disse «sono morti».
Elio Vittorini, da “Uomini e no”, 1945

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