Immagini

Le foto che raccontano la storia

25.10.2022
Foto in evidenza: “The Shadow”, 1945
È l’impronta di una donna anziana che aspetta sulle scale l’apertura della Sumitomo Bank Company, a Hiroshima. Tutto ciò che resta di lei dopo l’esplosione della bomba atomica: un’ombra.
Non si conosce il nome della persona che ha scattato questa fotografia, ma se è vero, come sostiene Ansel Adams, che “tu metti nella fotografia tutte le immagini che hai visto, i libri che hai letto, la musica che hai sentito, e le persone che hai amato“, se è vero che una fotografia deve essere in grado di fermare una storia e di raccontarla, allora questa foto ci ha raccontato tutto ciò che dovevamo sapere e ci ha insegnato tutto ciò che non dobbiamo più fare.
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Aleksandr M. Rodchenko, “Lilja Brik”, 1924
 
Aleksandr Michajlovič Rodčenko (1891 – 1956) è un pittore e fotografo russo, uno dei maggiori esponenti del costruttivismo. “Non sono approdato alla fotografia ‘dal nulla’. – diceva di sé – Ci sono arrivato quando ero già pittore, grafico e designer.”
Il suo metodo di lavoro?
«Se si desidera insegnare all’occhio umano a vedere in una nuova maniera, è necessario mostrargli gli oggetti quotidiani e familiari da prospettive ed angolazioni totalmente inaspettati e in situazioni inaspettate; gli oggetti nuovi dovrebbero essere fotografati da angolazioni differenti per offrire una rappresentazione completa dell’oggetto».
Per quanto non sia la sua fotografia più bella, “Lilja Brik” è sicuramente una delle più celebri: l’immagine della ragazza che grida tutto il suo entusiasmo, originariamente utilizzata per la pubblicità di una libreria, si prestò ad essere impiegata negli ambiti più disparati.
Così la saluta Vladimir Majakovskij:

Oh Lilja, mia immagine permanente. Anima di metallo che tormenti i miei respiri in continuazione. Angoli non smussati che pungono le mie viscere. Muscoli bruciati da una passione malata, come il residuo di una pellicola separata dalla matrice. Come mi è mai potuta venire in mente una cosa del genere? […] Aleksandr ha saputo discernere ogni cosa. Lui si che ha saputo mettere da parte il sentimento bramoso di ogni bestia d’uomo fin dal primo contatto con le prede. Qualche scatto professionale ad evidenziare quella mano bianca e il suo sottile ornamento in perfetto contrasto con il rossore delle guance in tiro. Quella posizione trasversale da cui ha scattato, riuscendo a spalmarti, pressarti, schiacciarti sulla pellicola senza provocarti alcun dolore. Quella prospettiva che ti vuole vedere in caduta, come se una mano invisibile ti stia trattenendo da un inevitabile tonfo a terra. Urla, Lilja! Diffondi la tua musica, estendi i tuoi muscoli e tuona! Senza rabbia!  […] Dove guardavi Lilja? Con quale forza volevi perforare l’obiettivo? Quella tua dentatura precisa, lucida, che sembra voler azzannare il vuoto. Il tuo corpo in uno slancio gioviale a mordere qualcosa. E quei capelli raccolti nel fazzoletto…quante volte li ho accarezzati. […] Quanti cuori hai rapito, quanti cervelli hai incantato, eroina della rivoluzione, altruista e immortale. Oh Lilja, mia diletta…

Ti amo, Lilja…

Quanto mai tuo, Vladimir.”

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Louis Daguerre, “Natura morta”, 1837

 

Louis-Jacques-Mandé Daguerre (1787 – 1851), artista, chimico e fisico francese, considerato l’inventore del metodo fotografico che da lui prende il nome: il dagherrotipo. In realtà il primo scatto  fotografico risale al 1826 ed era stato di Nicéphre Niépce, che aveva ripreso il paesaggio fuori dalla finestra del suo studio. Tuttavia il metodo adottato, detto “eliografia”, richiedeva più di  8 ore di esposizione, a fronte del dagherrotipo che lo ridusse ad una quindicina di minuti.

Quando incontrò Niépce, Daguerre era un decoratore di fondali che usava la camera oscura per realizzare diorami e spettacoli teatrali: nel 1829, i due si misero in società per proseguire le loro ricerche, società alla quale pose fine, quattro anni dopo, la prematura morte di Niépce.

 

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Una strage dimenticata… 

… quella dei milioni di animali, cavalli, muli, asini, cani, colombi viaggiatori, sacrificati nella storia.
In questa foto, di cui non è noto l’autore, i soldati americani rendono omaggio agli 8 milioni di cavalli, asini e muli uccisi durante la prima guerra mondiale.

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Autore sconosciuto, “Lunch Atop a Skyscraper”, 1932

 

La foto, scattata al 69esimo piano del RCA Building (oggi GE Building), in occasione della  campagna promozionale di un complesso di grattacieli in costruzione, ritrae 11 uomini che mangiano, parlano e fumano a più di 250 metri di altezza. Quel giorno sul posto erano presenti tre fotografi: Charles C. Ebbets, Thomas Kelley e William Leftwich, ma non si sa chi di loro sia l’autore di questo scatto.

 

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Dorothea Lange, “Migrant Mother”, 1936

 

Siamo a Nipomo, San Luis Obispo County (California). È il 1936. Sono gli anni della Great Depression, di cui questa foto è diventata, in un certo senso, il simbolo. La donna ritratta, Florence Owens Thompson, ha 32 anni e ben sette figli.

Nel 1960,  Dorothea Lange racconterà:

«Vidi quella madre affamata e disperata e mi avvicinai, come attratta da un magnete. Non ricordo come le spiegai perché ero lì e che ci facevo con la macchina fotografica, ma ricordo che non mi fece domande. Feci cinque scatti, avvicinandomi sempre di più nella stessa direzione. Non le chiesi come si chiamava, né qual era la sua storia. Lei mi disse la sua età, aveva 32 anni. Mi raccontò che vivevano mangiando verdura gelida dai campi vicini, e uccelli catturati dai bambini. Aveva appena venduto le gomme dell’auto per comprarsi il cibo. Se ne stava seduta con i suoi figli accovacciati attorno a lei, e sembrava consapevole che la mia fotografia l’avrebbe potuta aiutare, e per questo lei aiutò me. Ci fu una sorta di equo scambio». 

 

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Sam Shere: iI disastro del dirigibile Hindenburg a Lakehurst, 1937

 

Il 6 maggio 1937, alle ore 19:25, il dirigibile LZ 129 Hindenburg,  dopo aver sorvolato l’Atlantico partendo da Francoforte, esplode mentre cerca di attraccare alla Stazione Aeronavale di Lakehurst (New Jersey). Il bilancio delle vittime è drammatico: delle 97 persone che trasporta, 35 perdono la vita. Tuttora controverse le cause del disastro: problemi tecnici o sabotaggio, chissà!

 

La radiocronaca di Herbert Morrison, che fu trasmessa soltanto il giorno dopo:

“Al momento è praticamente immobile. Hanno gettato le funi dalla prua e alcuni uomini le hanno assicurate al suolo. Ricomincia a piovere; sta… la pioggia era un po’ diminuita. I motori posteriori girano quel tanto, quel tanto che basta a tenerlo su… È andato in fiamme! È andato in fiamme e sta precipitando, si sta schiantando! Attenzione! Attenzione, voi! Toglietevi di mezzo! Toglietevi di mezzo! Riprendi, Charlie! Riprendi questo, Charlie! Il fuoco e si sta schiantando! Si schianta, è spaventoso! O mio Dio, toglietevi, ve ne prego! Brucia e divampa, e il… e sta precipitando sopra al pilone d’ormeggio e tutti si rendono conto che è terribile, questa è una delle peggiori catastrofi del mondo [parole indecifrabili] È… è… in fiamme [indecifrabile, forse dice “salendo”] oh, quattro, forse cinquecento piedi nel cielo ed è… uno schianto pazzesco, signore e signori. C’è fumo, fiamme ora… e il telaio si sta schiantando al suolo, non proprio sul pilone. Oh, tutta quell’umanità e i passeggeri che urlano ovunque, qui attorno. Ve l’ho detto, non riesco nemmeno a parlare alle persone i cui amici sono lì a bordo. Ah! È… è… è…è… o… ohhh! Non, non riesco a parlare, signori e signore. Veramente, giace laggiù, un ammasso di resti fumanti. Ah! Tutti riescono a malapena a respirare e a parlare, e le urla. Signora, mi, mi dispiace. Sul serio: respiro a malapena. Sto, sto per rientrare dove non posso vederlo. Charlie, è terribile. Ah, ah… Non posso. Devo proprio fermarmi un minuto perché ho perso la voce. È la cosa peggiore a cui abbia mai assistito.”

 

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L’ultima esecuzione pubblica con la ghigliottina, 1939

 

Forse potrà sembrare strano, ma l’ultima esecuzione pubblica con la ghigliottina risale al 1939! D’altronde, perché stupirsi? La famigerata macchina del medico francese Joseph-Ignace Guillotin (che, contrariamente a quanto si crede, non ne fu l’inventore, visto che la ghigliottina era già in uso nel Regno di Napoli alla fine del XV secolo, ma soltanto il deputato che nel 1789 ne propose l’adozione all’Assemblea nazionale) continuerà a funzionare in forma privata fino al 1977 e solo nel 1981 la Francia arriverà all’abolizione della pena di morte.

L’ultimo ghigliottinato (che si intravede nella foto) è il pluriomicida Eugène Weidmann, che viene così a chiudere (ufficialmente, si intende) una serie di vittime più o meno illustri cominciata nel 1792 dal grassatore Nicolas-Jacques Pelletier. Per un curioso paradosso, a perfezionare il funzionamento della macchina, di cui si ignora il nome dell’inventore, era stato proprio una delle sue vittime più famose: Luigi XVI.

 

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Robert Capa: un soldato raggiunge la spiaggia di Omaha il D-Day, 1944

 

Robert Capa fu l’unico fotografo a raccontare  con i suoi scatti il D-Day: per un’ora e mezza rimane a fotografare lo sbarco in Normandia, mentre  i soldati  muoiono  intorno a lui. Riesce a scattare 106 fotografie, ma, per un errore commesso dal laboratorio durante lo sviluppo, se ne salveranno soltanto 11.

Più tardi, Robert Capa avrebbe raccontato in un’intervista:

“I soldati immersi fino alla cintola, i moschetti pronti a sparare, le difese d’acqua anti invasione e la spiaggia avvolta nel fumo: tutto ciò, per un fotografo, era davvero più che sufficiente. Mi fermai qualche istante in plancia per scattare le mie prime, vere immagini dello sbarco. Il mare era gelido e la spiaggia ancora lontana un centinaio di metri. Mentre intorno a me fioccavano proiettili che bucavano l’acqua, mi diressi verso la barriera d’acciaio più vicina.”

 

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Yevgeny Khaldei: un soldato sovietico sventola la bandiera comunista sul Reichstag di Berlino, 1945

 

Yevgeny Ananyevich Khaldei è un ufficiale di marina ed è anche il fotografo dell’Armata Rossa. Discendente da una famiglia ebrea di origini ucraine, appassionato di fotografia fin da bambino, prima del conflitto aveva lavorato per la TASS e anche se in seguito non sarebbe riuscito ad affermarsi come fotoreporter, alcuni dei suoi scatti rimasero giustamente famosi.

Il più iconico, quello realizzato il 2 maggio 1945, nelle prime ore del mattino: un soldato sventola la bandiera comunista dal palazzo del Reichstag, la sede del Parlamento tedesco.  In realtà la foto è una sorta di “manipolazione”, nella quale Khaldei si fece aiutare da tre commilitoni: del vero e proprio alzabandiera, infatti, avvenuto di notte  e sotto il fuoco nemico, non era stata fatta alcuna fotografia, tano più che la bandiera sovietica era stata in seguito strappata dai soldati tedeschi. Soltanto dopo la resa del Reichstag,  Khaldei riprodusse l’episodio utilizzando una bandiera che aveva portato con sé da Mosca e che un suo amico ebreo aveva cucito servendosi di una tovaglia rossa.

 

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Alfred Eisenstaedt, “V-J day in Times Square”, 1945 

 

“A Times Square, nel V-J Day, – racconta Alfred Eisenstaedt – ho visto un marinaio che correva lungo la strada afferrando qualsiasi ragazza vedesse. Che lei fosse una nonna, robusta, magra non faceva differenza. Stavo correndo davanti a lui con la mia Leica guardandomi indietro, ma nessuna dei possibili scatti mi piaceva. Poi, all’improvviso, in un lampo, ho visto che afferrava qualcosa di bianco: mi sono girato e ho cliccato nel momento in cui il marinaio baciava l’infermiera. Se lei fosse stata vestita con un abito scuro non avrei mai preso l’immagine. Lo stesso se il marinaio avesse indossato una divisa bianca. Ho scattato esattamente quattro immagini, nel giro di pochi secondi. Solo una era giusta, a causa del bilanciamento. Nelle altre l’enfasi è sbagliata – il marinaio sul lato sinistro è troppo piccolo o troppo alto. La gente mi dice che quando io sarò in cielo mi ricorderanno per questa immagine.”

Alfred Eisenstaedt, fotografo tedesco ma americano di adozione, immortalò quello che è stato definito “il bacio più famoso della storia” tra due persone che, dopo una serie interminabile di indagini infruttuose, sono stati identificate (o, almeno, così pare) come George Mendonsa e Greta Zimmer Friedman, l’infermiera (o assistente che dir si voglia) di un dentista. Sarà proprio lei a raccontare, in un’intervista del 2005  per Veterans History , che quello “non era proprio un bacio, era solo qualcuno che festeggiava, non era un evento romantico. Ma solo un modo per ringraziare Iddio che la guerra fosse finita“. E poi: “Quell’uomo era molto forte. Io non lo stavo baciando. Fu lui a baciare me.

 

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Alberto Korda, “Guerrillero heroico”, 1960

 

Scattata dal cubano Alberto Korda, già fotografo di moda, ma poi passato a lavorare per il quotidiano Revolución,  “Guerrillero heroico” è probabilmente la foto più famosa di Che Guevara.

Avana, 5 marzo del 1960:  mentre si sta officiando il funerale delle vittime dell’esplosione della nave Coubre, Korda scatta due fotografie con due diverse inquadrature: una orizzontale e l’altra verticale. Sarà però Giangiacomo Feltrinelli a consacrare la foto alla fama, tanto da farla riconoscere dal  Maryland Institute of Art come la “fotografia più famosa e icona mondiale del ventesimo secolo”: l’editore, al quale Korda aveva regalato i due scatti,  pubblicò la  foto del Che, prima come poster, il che avvenne nel 1967, sia come copertina del libro Diario in Bolivia, nel 1968.

 

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Peter Leibing, “Disertore della Germania dell’Est, salta oltre il confine”, Berlino, 1961

 

Il soldato nella foto è Conrad Schumann, che all’epoca aveva 19 anni e prestava servizio nella  Bereitschaftspolizei, la polizia antisommossa tedesca della DDR, la Repubblica Democratica Tedesca, controllata dai sovietici. Al di là di quel il filo spinato che divideva in due la città, c’era Berlino Ovest, dove nei mesi precedenti si erano trasferiti migliaia di tedeschi, ma che dopo quel 15 di agosto sarebbe diventata irraggiungibile. Per bloccare questa emorragia umana,  la Repubblica Democratica Tedesca decise, infatti, la costruzione di un muro che avrebbe diviso in due la città  e che sarebbe stato giustificato  come una “protezione antifascista”, necessaria per impedire eventuali aggressioni da Ovest.

Schumann e i suoi compagni erano stati schierati a guardia di quel filo spinato, dove non potevano fare a meno di assistere alle strazianti scene di dolore di quella città spaccata in due da una ferita insanabile. Attraverso quella barriera del filo spinato, di cui Conrad è uno dei guardiani,  una donna porge un mazzo di fiori a sua madre per augurarle buon compleanno, senza poterla più abbracciare.

Forse Conrad lo ignora, ma dall’altra parte del filo spinato c’è  un ragazzo della sua stessa età, il fotografo Peter Leibing, che rimane immobile ad osservarlo: il giovane soldato cammina avanti e indietro con il fucile in spalla, fumando una sigaretta dopo l’altra. Ma c’è anche qualcun altro che lo sta guardando e al quale non sfuggono né la sua tensione nervosa, né il gesto furtivo con il quale il ragazzo cerca di abbassare la barriera del filo spianto.

Improvvisamente, una voce secca urla: “Komm ‘rüber!” (“Vieni qui!”).

Alle quattro del pomeriggio, Conrad getta la sigaretta, lascia cadere il fucile e salta oltre il filo spinato.

Sarebbe stata veramente una scelta per la libertà? Pur avendo immediatamente ottenuto lo status di rifugiato politico, negli anni successivi il ragazzo comincia ad essere tormentato dalla paura e dal senso di colpa: lui ormai è un disertore e quella foto di Leibing ha già fatto il giro del mondo; come avrebbe reagito il Servizio di Sicurezza della Repubblica Democratica Tedesca e soprattutto, che ne sarebbe stato dei suoi, rimasti dall’altra parte del muro? In apparenza, però, la sua vita scorre su binari tranquilli: Schumann trova lavoro in un’industria automobilistica e si sposa.

Poi, finalmente, alla caduta  del Muro di Berlino, il 9 novembre 1989, comincia a sentirsi “veramente libero”… Ma nella città in cui è nato non è un ospite gradito e non lo è neppure nella sua vecchia casa, dove  genitori e i parenti non sembrano per niente felici di incontrarlo. Con la tanto sospirata “libertà”, arrivano così i ripensamenti, le crisi depressive, l’alcool.

Nel 1998, Schumann si impicca ad  un albero del suo frutteto, senza nemmeno lasciare un biglietto d’addio. Il peso delle sue scelte, per lui, è diventato insopportabile.

 

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Malcolm Browne: l’immolazione di Thích Quảng Đức, 1963

 

Nato in Vietnam come Lâm Văn Tức, aveva cambiato il suo nome a 20 anni, quando, sotto la guida dello zio buddista, aveva preso i voti, fondando, nel corso della sua lunga attività,  ben 17 templi buddisti. Negli anni Sessanta, però, il governo sudvietnamita di Ngô Đình Diệm mise in atto una pesante politica repressiva nei confronti del buddismo (che, all’epoca, era la religione maggioritaria), politica, questa, appoggiata dalla Chiesa  e dal fratello stesso di Thích Quảng Diệm, il vescovo cattolico Ngô Đình Tuch,  nominato dal  Vaticano vicario apostolico per il Vietnam. A questa linea politica, più volte stigmatizzata dal presidente americano John Fitzgerald Kennedy, i buddisti risposero con una campagna di resistenza passiva, chiedendo la parità religiosa, la scarcerazione dei buddhisti arrestati e il risarcimento per le famiglie delle vittime di violenze. La situazione precipitò quando, all’intensificarsi delle rappresaglie governative, l’amministrazione americana decise di sospendere gli aiuti al governo sudvietnamita,  creando le basi per un colpo di stato militare che, nel ’63, sfociò nell’assassinio del presidente.

Arriviamo così al 10 giugno dello stesso anno, quando la stampa americana viene allertata dai rappresentanti  della comunità buddhista di Saigon circa  qualcosa  che, il giorno dopo, sarebbe successo di fronte all’ambasciata  della Cambogia. Sono pochi, però, i giornalisti che prendono sul serio questa notizia e tra questi  c’è Malcolm Browne, dell’Associated Press. Da lontano, arriva un nutrito gruppo di monaci buddisti che marciano accompagnati  da un’auto azzurra coperta di cartelli che invocano l’eguaglianza religiosa. Improvvisamente, Thích Quảng Đức si siede, nella posizione del loto,  sul cuscino di meditazione che l’auto aveva trasportato e comincia a  sgranare il suo Akṣamālā (il rosario buddista fatto di grani di legno), mentre un monaco lo cosparge di benzina: è lo stesso  Thích Quảng Đức che accende un fiammifero e si dà fuoco.

 

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Abraham Zapruder: l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, 1963

 

Questo è il famigerato fotogramma 313, che mostra il momento esatto in cui John Fitzgerald Kennedy si accascia su se stesso, ferito a morte dai colpi del moschetto Carcano di  Lee Harvey Oswald; tre o forse quattro colpi, visto che alcuni testimoni affermarono di aver sentito sparare anche da una collinetta vicina al luogo dell’attentato. A girare il video fu  Abraham Zapruder, un sarto ebreo di origini russe che, il 22 novembre del 1963, durante la sua pausa pranzo, era andato a filmare il passaggio del corteo presidenziale. Il video verrà in seguito acquistato dalla rivista Life per 150 mila dollari, ma sarà trasmesso  soltanto 12 anni dopo l’omicidio dalla rete ABC.

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Buzz Aldrin: Neil Amstrong sbarca sulla luna, 1969

 

«That’s one small step for a man, but a giant leap for mankind.» («Questo è un piccolo passo per un uomo, ma un grande balzo per l’umanità.»): questa, la storica frase che Neil Armstrong pronunciò uscendo dall’Eagle, primo uomo a sbarcare sulla luna…sempre che il famoso allunaggio dell’Apollo 11 sia avvenuto veramente!

La polemica, o, almeno, il primo dubbio sulla questione, fu sollevata nel 1976 dal libro “Non siamo mai andati sulla luna. Una truffa da 30 miliardi di dollari“, di Bill Kaysing e Rendy Reid, i quali, rilevando l’impossibilità, per la tecnologia del tempo, di mandare a segno un’impresa del genere, ipotizzarono che  l’allunaggio fosse stato in realtà girato in un set cinematografico con la regia di  Stanley Kubrick. I motivi che avrebbero indotto l’amministrazione americana ad una scelta del genere sarebbero riconducibili sia alla competizione tra USA e URSS nella cosiddetta “corsa alla luna” (acuita dal clima creato dalla guerra fredda), che fino a quel momento aveva visto in testa l’Unione Sovietica, sia dall’esigenza di distogliere l’attenzione degli americani dalla fallimentare guerra in Vietnam.

 

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Nick Ut: Kim Phúc, 1972

 

 

Scattata l’8 giugno del 1972 da Nick Ut (il cui vero nome è Huynh Cong), un fotografo dell’ Associated Press,  è rimasta forse il simbolo più noto della guerra in Vietnam: un gruppo di bambini nordvietnamiti, tra i quali  Kim Phúc, di 9 anni,  fugge dal  villaggio di Trang Bang, nei pressi di Saigon, completamente distrutto da un bombardamento al napalm. Dietro di loro, alcuni soldati sudvietnamiti (almeno, secondo la testimonianza del fotografo) e una spessa cortina di fumo. In realtà la foto  risulta dalla riduzione di un’inquadratura più estesa (qui sotto), in cui si vedono dei soldati e un altro fotografo, in divisa militare.

 

 

Quanto alla piccola Kim Phuc, le sue vicissitudini furono raccontate da Denise Chong nel libro “Girl in the picture”, del 2001:  dopo essere stata curata dalle ustioni, fu inviata all’Università dell’Avana; trasferitasi in Canada insieme al marito, diventò  ambasciatrice dell’Unesco. Questa stessa vicenda fu ricostruita sulla base di quanto riferito dal fotografo Nick Ut, che, caso più unico che raro, rimase sempre sempre con lei in rapporti amichevoli.

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Kurt Strumpf: un terrorista di Settembre nero al balcone della palazzina della squadra israeliana,  1972

 

5 settembre 1972: siamo alle Olimpiadi di Monaco. L’attacco di Settembre Nero, un’organizzazione legata all’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) comincia alle 4 del mattino: 11 atleti della squadra olimpica israeliana vengono sequestrati; due di loro, che cercano di bloccare gli attentatori,  vengono immediatamente uccisi; gli altri perderanno la vita nella base aerea tedesca di Furstenfeldbruk,  durante un raid delle forze di sicurezza tedesche. Stando alle dichiarazioni del New York Times e di due vedove degli atleti (alle quali  un funzionario tedesco avrebbe mostrato, nel 1992, una documentazione che descriveva cosa era stato fatto agli ostaggi), gli uomini sarebbero stati atrocemente torturati, mentre  i fedayn dell’Olp hanno sempre sostenuto che «gli ostaggi morirono quando la polizia ci attaccò».

 

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Luis Orlando Lagos Vázquez: l’ultimo giorno di Salvador Allende, 1973

 

Luis Orlando Lagos Vázquez, meglio noto come “Chico”, era un fotoreporter cileno che appena tre anni prima era diventato il fotografo ufficiale de La Moneda (il palazzo presidenziale): sarà proprio lui a riprendere gli ultimi momenti di vita del  Presidente Salvador Allende.

11 settembre del 1973: è la data del golpe del generale Pinochet, sostenuto dalla CIA.  La Moneda è ormai sotto attacco:  il Presidente pronuncia alla radio il suo storico discorso di addio (cfr. qui su YUNUS, Categoria: Magazzino Memoria, L’ultimo discorso di Salvador Allende. Sempre in Magazzino Memoria si può leggere La morte di Salvador Allende, di Gabriel Garcia Marquez), rifiutandosi di lasciare  il palazzo che  viene bombardato. Mentre è in atto il colpo di stato, Lagos fugge insieme alle figlie del Presidente, Beatriz e Isabel.

L’anno successivo, la foto avrebbe ricevuto il premio World Press Photo of the Year, che però  sarà Dane Bath, redattore del New York Time, a ritirare per conto di Chico, la cui identità, per ragioni di sicurezza, verrà rivelata soltanto dopo la sua stessa morte.soltanto dopo la sua morte.

 

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Sam Nzima: la rivolta di Soweto, 1976

 

Soweto, un quartiere nell’estrema periferia di Johannesburg, costruito alla fine del II conflitto mondiale e abitato da neri e indiani, che lavorano soprattutto  nelle miniere. E’ il 16 giugno del 1976: Antoinette Sithole esce di casa per partecipare alla manifestazione contro l’apartheid, l’infame regime di segregazione razziale introdotto ufficialmente  nel 1948, dopo la vittoria del Partito Nazionale, e che resterà in vigore fino al 1991.

Improvvisamente, la polizia carica i manifestanti: “Tutti cominciammo a correre nella confusione, cercando un riparo e precipitandoci nelle case“, avrebbe raccontato Antoinette. Quando finalmente riesce ad uscire dal suo nascondiglio, vede il fratello dodicenne Hector dall’altra parte della strada: “Non doveva essere lì. Era troppo giovane per capire cosa stava realmente accadendo”. Lo raggiunge e lo rassicura: troverà presto il modo di riportarlo a casa…

Succede tutto in modo talmente surreale che Antoinette quasi non riesce a rendersene conto: in mezzo alla folla, spunta un poliziotto bianco con la pistola in pugno, parte un colpo, un uomo, Mbuyisa Makhubo, corre accanto a lei con un bambino tra le braccia. E’ suo fratello! Antoinette riesce a riconoscerlo soltanto dalle scarpe, cerca di aiutare l’uomo a caricarne il corpo su di una macchina  per portarlo in ospedale…ma oramai è troppo tardi: suo fratello è morto.

Quella stessa mattina, Sam Nzima, un fotoreporter di 42 anni che lavora per The World“un giornale fatto da neri per neri”, si reca sul posto per fotografare la manifestazione. Quando vede il poliziotto bianco puntare la pistola contro la folla, si prepara: scatta in tutto 6 fotografie, dopodiché si affretta a nascondere il rullino in una calza, per evitare che gli venga sequestrato. Poi continua a scattare: gli studenti uccidono un poliziotto e gli danno fuoco. Gli agenti, però, lo costringono a distruggere il rullino, per cui la foto va perduta. Restano quelle di Hector, ma in redazione si scatena una discussione sull’opportunità di pubblicarle: la paura è quella di alimentare ulteriormente l’odio razziale, spingendo il Sudafrica in una guerra civile. Prevale, però, l’esigenza di testimoniare gli orrori che i neri continuano a subire. Quella stessa sera, The World esce con un’edizione straordinaria.

Nzima comincia a ricevere una serie interminabile di intimidazioni e minacce: tenta di fuggire, ma viene catturato, condannato agli arresti domiciliari e costretto ad abbandonare la sua professione.

Ad Antoinette non resta altro che seppellire il corpo del fratellino.

Makhubo, la cui famiglia è molto vicina all’African National Congress,  il partito di Nelson Mandela, accusato di aver posato per la foto di Nzima allo scopo di gettare ombre sul governo,  finirà col lasciare il Paese.

 

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Jeff Widener, “Tank Man”, 1989

 

“L’uomo del carro armato”, o “Il rivoltoso sconosciuto”, che il giorno successivo alla protesta di piazza Tienanmen (4 giugno 1989), a Pechino, bloccò con il suo corpo l’avanzata dei carri armati, fu in realtà immortalato in varie fotografie, scattate da diversi fotografi, ma alcune di esse furono distrutte dai servizi segreti cinesi. Ne rimangono tre, oltre a quella di Widener: quella di Charlie Cole per Newsweek, quella di Stuart Franklin per Magnum e quella di Arthur Tsang Hin Wah per Reuters. 

La versione di Jeff Widener, che scattò la foto da un piano più basso dell’hotel rispetto a quello in cui si trovavano i suoi colleghi, incornicia la scena in modo stretto, in maniera simile a quella di Cole, ma con un carro armato in più nell’inquadratura ed un lampione che emerge dal basso.

In quei giorni l’avventura di Widener fu rocambolesca: ferito al volto da una pietra mentre, il giorno prima,  cercava di documentare le proteste di Piazza Tienanmen, si era salvato fortunosamente  grazie alla fotocamera che aveva attutito il colpo. Il giorno successivo, ricevuto l’incarico di fotografare i disordini, arriva sul posto in bicicletta e, con l’aiuto di uno studente, riesce a sgattaiolare nell’hotel eludendo i controlli della polizia. Terminati i rullini, si rivolge ancora una volta allo studente, che però riesce a trovare soltanto una pellicola diversa da quella che lui è abituato ad usare;  ovviamente Widener si deve accontentare, ma così la foto risulterà molto meno nitida di quanto avrebbe voluto, anche se risulterà la più famosa. Intanto, lo stesso  studente che lo aveva aiutato fino a quel momento,  riesce a portare in salvo  il rullino negli uffici della AP senza destare sospetti.

 

Charlie Cole, “Tank Man”, 1989

 

Charlie Cole, che con questo scatto avrebbe vinto il World Press Photo, nascose il rullino nel serbatoio dello scarico del bagno della sua camera  d’albergo, ma soltanto in seguito riuscì a recuperarlo e a svilupparlo negli uffici della Associated Press.

 

Stuart Franklin, “Tank Man”, 1989

 

Stuart Franklin, che fotografava  dal tetto dell’hotel Beijing insieme a Charlie Cole, restituisce, rispetto a lui, una visuale più ampia, più allargata della scena.

 

Arthur Tsang Hin Wah, “Tank Man”, 1989

 

Arthur Tsang Hin Wah, due notti prima, era stato malmenato  da alcuni studenti che lo avevano creduto una spia. La sua fotografia del Tank Man, scattata con qualche secondo di anticipo rispetto alle altre, è divisa in terzi da due pali della luce. Anche Tsang, nei giorni successivi, rimase nascosto in albergo, ma nel frattempo il rullino era già stato messo in salvo da un suo collega che lo aveva raggiunto in bicicletta. la sua foto, però, fu pubblicata con molto ritardo rispetto a quelle dei suoi colleghi, perché l’editor del giornale aveva preferito scegliere un altro scatto: quello dell’uomo che si arrampicava sul carro armato.

 

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“I Pilastri della Creazione”, 1995

“I Pilastri della Creazione” è il nome attribuito a 32 fotografie riprese dal telescopio spaziale Hubble in momenti differenti,  a partire dal 1995: si tratta di immense colonne di gas e di polveri interstellari sul bordo sud-orientale della Nebulosa Aquila (NGC 6611), a 7.000 anni luce dalla terra. Sono immagini che hanno permesso di mettere a segno importanti scoperte sui processi di  formazione delle stelle, tanto più quando, nel 2014, un nuovo strumento installato sul telescopio, la Wide Field Camera 3, riuscendo  a spingersi più in profondità grazie al suo sistema ad infrarossi, ha consentito di realizzare nuove scoperte. circa le stelle che stanno nascendo all’interno dei “pilasti”. Sulla base di quanto osservato finora, si ipotizza che anche il Sole si sia formato tramite un’esplosione stellare,  bersagliato dal materiale radioattivo di una supernova, quindi in maniera molto simile alle stelle della Nebulosa Aquila.

 

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Richard Drew, “Falling man”, 2001

 

Il giorno dell’attentato alle Torri Gemelle, l’11 settembre el 2001, Richard Drew era stato inviato a fotografare una sfilata di moda premaman al Bryant Park di Manhattan, quando ricevette l’ordine di recarsi al World Trade Center.

Una persona cade a capofitto dopo essere saltata dalla Torre Nord del World Trade Center. È stato uno spettacolo orribile che si è ripetuto nei momenti in cui gli aerei hanno colpito le torri“: questa la didascalia con la quale il l New York Times accompagnò la foto pubblicandola il giorno successivo all’attentato.

Al di là delle polemiche circa l’opportunità o addirittura la liceità di rendere pubbliche le immagini delle tante perone che si gettarono o che precipitarono nel vuoto (circa 200), resta il fatto che “Falling man” diventò il simbolo stesso della tragedia, ispirando artisti e scrittori. Tra questi ultimi, Don DeLillo, che, nel 2007, pubblicò un romanzo con lo stesso titolo, in cui raccontava la vita di un sopravvissuto all’11 settembre.

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Ivan Frederick, “Hooded Man”, 2003

Questa non è una foto, ma il fermo immagine di un video trasmesso il 28 aprile del 2004 su 60 minutes, un programma d’inchiesta della rete televisiva americana CBS. “L’uomo incappucciato” è un prigioniero iracheno, rinchiuso e seviziato, come molti altri, all’interno del carcere di Abu Ghraib, vicino a Baghdad. Il “fotografo”, Ivan Frederick, è uno dei suoi torturatori.

Abu Ghraib (“il posto dei corvi”) fu costruito dagli inglesi negli anni Cinquanta per conto dell’allora regno iracheno; sotto il regime di Saddam Hussein arrivò a contenere circa 15 mila detenuti e, alla caduta del dittatore, fu trasformato nella prigione principale di Baghdad. Il carcere era praticamente diviso in due aree: una gestita direttamente dal governo provvisorio iracheno; l’altra dagli americani che vi rinchiudevano  le persone sospettate di terrorismo.

Nel  2003, in un reportage di Associated Press, alcuni ex prigionieri riferirono di essere stati umiliati e pestati a sangue all’interno del carcere, ma saranno soprattutto i video raccapriccianti di 60 minutes a sgomentare l’opinione pubblica. Nella foto soprastante, “l’uomo in cappucciato”, in equilibrio precario su di una scatola di cartone, ha dei fili elettrici legati alle mani; altri video mostrano prigionieri nudi contro i quali sono stati aizzati i cani o con i corpi ammonticchiati gli uni sopra gli altri. Sono tutti incappucciati, per alimentarne ulteriormente il terrore.

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Il corpo del piccolo  Alan Kurdi

 

 

Che Kurdi sia il vero nome del piccolo, o che sia stato soltanto il termine per indicare la sua etnia di appartenenza, tutto ciò ha ben poca importanza rispetto alle dimensioni della tragedia che ha travolto un numero incalcolabile di vittime dell’indifferenza, dell’insipienza e spesso della criminalità dei governi.

Alan era un bambino siriano di circa tre anni: la sua famiglia aveva fatto di tutto per portarlo in salvo dalla guerra, riparando in Turchia per poi tentare di raggiungere la Grecia, senza peraltro riuscirci. Nel 2015, il padre  di Alan decide di fare l’ennesimo, rischiosissimo tentativo: sale su di un gommone diretto verso il Canada, ma l’imbarcazione si rovescia pochi minuti dopo e il cosiddetto “comandante” si affretta a mettersi in salvo abbandonando al loro destino tutti gli altri, che indossano giubbotti salvagente inservibili, perché finti! La mattina successiva, il corpicino di Alan e di un’altra bambina vengono ritrovati su una spiaggia della Turchia, dove, poco dopo, il piccolo Alan, nel frattempo trascinato a riva prima che la corrente se lo porti via, viene ripreso dalla fotografa turca Nilüfer Demir.

 

 

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