Pensieri

Pagine dei diari di Sylvia Plath

01.11.2022

Smith College, 1950-1955

Frustrata? Sì. Perché? Perché mi è impossibile essere Dio o la donna-uomo universale o qualunque cosa. Sono quello che sento e penso e faccio. Voglio esprimere quello che sono il più pienamente possibile perché ho trovato da qualche parte l’idea che in questo modo potrei giustificare il mio essere al mondo. Ma se devo esprimere ciò che sono, devo avere un modello, un punto di partenza, un metodo per dare un’organizzazione arbitraria e temporanea al mio personale e patetico piccolo caos. Sto cominciando adesso a rendermi conto di come questo modello o punto di partenza non possa che essere falso e provinciale. Ecco che cosa mi è così difficile da affrontare. Perry oggi ha detto che sua madre ha detto: “Le ragazze cercano una sicurezza assoluta; i ragazzi invece cercano una compagna. Cercano cose diverse“. Non sono d’accordo. Non mi piace essere una ragazza, perché come tale devo accettare di non poter essere un uomo. In altre parole, devo riversare le mie energie nella direzione in cui vanno gli
sforzi del mio compagno. La mia unica libertà è di scegliere o rifiutare quel compagno. E tuttavia è come temevo: mi sto adattando, e abituando all’idea… […]

 

Cambridge. Domenica, 26 febbraio [1956]

 

Un piccolo appunto dopo una grande orgia. E’ mattina, grigia, quasi sobria, dai bianchi e freddi occhi puritani; che mi guardano. Ieri notte ho preso una sbornia, proprio una sbornia grandiosa e adesso sono a pezzi, dopo sei ore di un sonno profondo da bambino, con Racine da leggere e neanche la forza di battere sui tasti: mi starà venendo il delirium tremens. O qualcosa del
genere. Hamish è venuto in taxi, e siamo morti di noia, in piedi appoggiati al bancone da Miller’s con un tale brutto, coi denti separati, tarchiato, di nome Meeson, che ridacchiava di continuo e cercava di essere tremendamente intelligente facendo commenti tremendamente profondi su delle sciocchezze. Hamish pallido, gli occhi azzurri venati di rosso. Ho bevuto
inflessibilmente, uno dietro l’altro, i bicchieri di Whiskey Macs rosso-dorato e, quando ce ne siamo andati, un’ora dopo, mi sentivo dentro quell’energia, quella forza come incagliata che ti fa muovere nell’aria quasi stessi nuotando, con gran disinvoltura. Di
sopra, l’aria sincopata di un pianoforte, e oh, l’atmosfera era molto bohémien: i ragazzi coi maglioni dolcevita e le ragazze con gli occhi truccati di blu o eleganti, in nero… Bert appariva raggiante e orgoglioso come se avesse appena fatto nascere cinque bambini, ha detto una qualche ovvietà sul fatto di aver bevuto troppo, e si è messo a raccontare che Luke, dopo che avevamo letto le poesie della “St Botolph’s“, era diventato satanico, e urlava [omissis]… Luke, ubriaco fradicio, con un… sorriso stupido sul volto pallido, le basette scure e i capelli arruffati, i calzoni informi a quadretti bianchi e neri e una giacca slacciata troppo grande, stava ballando quel jive inglese lento e strampalato con una ragazza vestita di verde, capelli e occhi sullo scuro, un’aria da folletto e, quando hanno finito di ballare, si è messo a tampinarla. C’era Dan Huws pallidissimo, terribilmente pallido e lentigginoso, e infine io che mi sono presentata con l’immortale verso che mi accompagna da quando è uscita la sua brillante, precoce e
tendenziosa recensione: “Questa è la metà migliore o la peggiore?”, ma lui ha un’aria incredibilmente giovane, troppo per pensare sul serio…
Ormai avevo vuotato un bicchiere, un po’ in bocca, un po’ sulle mani e il pavimento, e il jazz stava cominciando ad entrarmi nelle vene, e mi sono messa a ballare con Luke sapendo di essere conciata proprio male: avevo esagerato e passato ogni limite, parlavo a voce altissima delle poesie, e lui sorrideva con aria assente… Aveva scritto quelle cose e si muoveva in giro ciondolante. Beh, anch’io mi muovevo ciondolante, “senza forma, farfugliando” e non avevo neppure la scusa di aver scritto quelle cose; immagino che se sei capace di scrivere sestine e di stuprare versi e regole fino a farle schiattare, allora puoi [omissis]… sorridere… come un…
belzebù. Poi è accaduto il peggio, quel ragazzo grande, scuro, robusto, l’unico abbastanza alto per me in quel posto, che si era dato un gran daffare con le donne, di cui avevo chiesto il nome appena entrata nella stanza ma nessuno me lo aveva detto, mi si è avvicinato guardandomi dritto negli occhi ed era Ted Hughes. Mi sono messa di nuovo a parlare a voce altissima delle sue poesie e a citare: “amatissimo inattaccabile diamante” e lui mi ha risposto gridando, colossale, con una voce che avrebbe potuto venire dal Polo,”Ti piace?” e mi ha chiesto se volevo un po’ di brandy, ed io ho gridato di sì e ho camminato all’indietro fin nella stanza
vicina passando accanto alla faccia del caro Bert raggiante come una lampadina, manco avesse fatto nascere nove o dieci bambini, e bang la porta era chiusa e lui stava rovesciando brandy in un bicchiere e io lo stavo rovesciando dove avevo la bocca l’ultima volta che sapevo di averla.
Urlavamo come in una tempesta, parlando della recensione, e lui diceva che Dan sapeva che ero bella, non l’avrebbe scritta su uno sgorbio, e nella mia strillata protesta le parole “andare a letto con il redattore” si ripetevano con sorprendente frequenza. E poi si è arrivati al punto che io ero lì in carne e ossa, no?, e pestavo i piedi e gridavo di sì, e lui aveva qualcuno nella stanza
accanto, e lavorava a Londra, guadagnava dieci sterline alla settimana così poi avrebbe potuto guadagnare dodici sterline alla settimana, e io pestavo i piedi e lui pestava i piedi sul pavimento, e poi mi ha baciato, bang, proprio in bocca [Omissis…]. E quando mi ha baciato il collo, l’ho morso forte e a lungo sulla guancia, e quando siamo usciti dalla stanza, il sangue gli scorreva sulla faccia. E dentro di me io gridavo e pensavo: oh darmi a te, con violenza, di schianto. L’unico uomo nella mia vita che potrebbe annientare Richard. Ed ora sono seduta qui, contegnosa e depressa, con un po’ di male al cuore. Andrò avanti. Voglio scrivere una
descrizione dettagliata dell’elettroshock, concise, brevi descrizioni mozzafiato senza una goccia di lacrimoso sentimentalismo, e quando ne avrò abbastanza le manderò a David Ross (1). Non devo aver fretta, perché ho troppo disperatamente voglia di vendicarmi adesso. Ma ne farò un mucchio. Ho pensato alla descrizione dell’elettroshock la notte scorsa: lei e il sonno mortale
della sua pazzia, e la colazione che non arriva, i piccoli dettagli, il flashback dell’elettroshock andato male: l’avvio della elettroesecuzione, come si scivola inesorabilmente nel tunnel, ci si sveglia in un mondo nuovo, nati ancora una volta, e non da donna. Non lo vedrò mai più, e le angustie della giornata si affollano come le punte dei cancelli di Queens ieri notte: non potrei
mai andare a letto con lui comunque, con tutti gli amici che ha qui e vede sempre, e ridono e chiacchierano, sarei la puttana di tutti, e la baldracca di Roget. Non lo vedrò mai, lui non mi cercherà. Ha pronunciato il mio nome, Sylvia, e ha piantato uno sguardo scuro e ridente nei miei occhi, e una volta vorrei provare almeno questo, la mia forza contro la sua. Ma non verrà
mai, e la bionda, pura, fiera e prediletta, guarda forse con pietà e disgusto? Questa amorfa sgualdrina ubriaca. Ma Hamish è stato molto gentile e si sarebbe battuto per me. Gli dava una certa gloria portarmi via da loro, da quei malvagi, e per me vale la pena battersi, ero stata carina, con lui, ha detto. Stavamo uscendo mentre la bionda entrava, e Oswald col suo freddo sarcasmo ha detto qualcosa come: “Parlaci delle strutture ossee” e quella era l’ultima festa al St. Johns dove ho perso il guanto rosso, proprio come stasera ho perso il foulard rosso che amavo con tutto la rossa intensità mio cuore. In qualche modo queste notti dissolute mi fanno venire una violenta, monacale passione di scrivere e recludermi. Mi recluderò. Non voglio vedere nessuno, perché non è Ted Hughes e non sono mai stata presa in giro da un uomo. Sono finti, ha detto Hamish [Omissis…]. Devo scrivere, ed essere diversa? Mi aggrappo sempre alla scrittura, me la tengo stretta, la difendo, la difendo dal flusso delle facce tutte uguali. Ha
pronunciato il mio nome, Sylvia, e un vento impetuoso ha spazzato il deserto dietro ai miei occhi, dietro ai suoi occhi, e le sue poesie sono intelligenti e terribili e belle. […]

 

Smith College, Lunedì, 19 maggio [1958]

 

Soltanto che oggi non è affatto lunedì, ma giovedì 22 maggio, e io esco dalle ultime lezioni e da un bagno e ho perso molti ideali, modi di vedere, convinzioni. Ironia: l’atteggiamento maturo che copre crisi di pianto da sdolcinata rivista femminile. Disgusto. Sì, più che altro è questo: molte cose di me, ma ancora più di Ted, mi fanno ribrezzo [omissis]… Ironia: in quasi due anni [mi sono] trasformata dalla pazza perfezionista e promiscua amante degli esseri umani che ero, in una misantropa, e – da Tony, e da Paul – in una misantropa cattiva astiosa e maligna.
[Omissis.] Così ho messo noi due in un nostro mondo a parte, oh, infinitamente superiore: siamo per natura così carini, troppo carini – noi abbiamo il sorriso sulle labbra. Così siamo noi, adesso, in società, cattivi, crudeli e calcolatori – oh, non subito, ma solo quando veniamo attaccati. Non mandiamo più al diavolo con il coraggio dell’innocenza – siamo tutti denti e unghie. E proprio
quando ho raggiunto l’apice della cattiveria forse per la prima volta nella mia vita – non sono mai stata astiosa professionalmente o pubblicamente – ho avuto l’intuizione definitiva: non soltanto io sono cattiva come chiunque altro, ma lo è anche Ted. [Omissis.]
È così: l’ironia è il sale della vita. Sarà difficile che il mio romanzo si concluda con l’amore e il matrimonio: sarà una storia, come quelle di James, di manipolatori e manipolati, di sfruttatori e di sfruttati: di vanità e crudeltà: con una ronde, un cerchio di bugie e abusi in un mondo bello ma andato a male. L’ironia me l’annoto qui per il romanzo, ma anche per “The Ladies Home Journal“. Non sono Maggie Verver, sento tanto il sapore volgare del tradimento che mi viene da vomitare, da sputare il veleno che ho inghiottito: ma imparerò da Maggie, benedetta ragazza.
Come cresce l’ironia – ogni volta che facevo una delle mie banali e stupide affermazioni, venivo colta da un brivido, sentivo un oscuro destino dall’aspetto di rana col muso di gomma, che incombeva sulla pienezza del momento, pronto a mettermi di fronte a qualcosa di orribile, ancora mai visto, mai previsto. Ed è andata avanti così per tutto questo tempo, fino ai limiti estremi della mia intuizione. Riponevo la mia fiducia in Ted e perché la moglie è l’ultima ad accorgersi della cancrena del marito? Perché lei ci ha messo tutta la sua fiducia, una fiducia cieca coltivata con cura ed amore, che per seguire il corso del sole rinuncia a farsi domande, non sente le grida di chi ha sete nel deserto e le imprecazioni nella terra desolata. [Omissis.]
Dicevo con voce chiara e squillante: “Sono l’unica donna della facoltà ad avere un marito…
Oh, beh, il mio è [omissis]… un imbroglione. Guardo il primo libro di Lowell: all’epoca di Jean Stafford (2). Beh, almeno lei scrive per il “New Yorker” – una bella carriera, una bella vita – oppure forse proprio mentre parlo è in manicomio, era alcolizzata… Chissà a chi Ted dedicherà il suo prossimo libro? Al suo ombelico. [Omissis.] Beh, cominciamo con i retroscena per poi giungere ai fatti – la misantropia che sentivo nei confronti di tutti tranne Ted e me stessa, la fiducia in me stessa e in Ted e la sfiducia nei confronti di tutti gli altri. Non devo dimenticare ieri sera – Ted doveva leggere la parte di Creonte per la traduzione di Paul dell’Edipo e
praticamente mi ha detto di non andare. Ho detto va bene, ma mi ribellavo. Sono superstiziosa sul fatto di non sentir leggere Ted. Ho corretto di corsa il secondo pacco di compiti (e ne ho ancora un altro da correggere), sono balzata in piedi, come tirata da un guinzaglio, e mi son messa a correre, giù per le scale, fuori nel buio tiepido di maggio dal profumo intenso di lillà. La luna nuova mi fissava da sopra gli alberi – nella sua pienezza d’ombra dal contorno chiaro.
Correvo, sfiorando il terreno, nonostante la lunga tensione e spossatezza, come se volassi, il cuore mi doleva come un pugno chiuso nel petto. Correvo correvo, senza fermarmi, giù per la collina ripida e accidentata vicino a Paradise Pond, ho visto un coniglio, lanuginoso, accovacciato tra i cespugli dietro al Centro Botanico. Correvo verso la facciata coloniale illuminata del Sage Hall, le colonne bianche risplendevano nella luce elettrica, non un’anima in giro, i marciapiedi echeggiavano vuoti. L’ingresso era pieno di luce: due persone, una ragazza grassa e un uomo brutto, stavano registrando un nastro di musica nella cabina laterale. Sono sgusciata dentro, mi sono infilata in un posto in fondo e ho tentato di calmare il buffo battito del mio cuore e l’affanno del mio respiro [omissis]… Nel preciso istante in cui sono entrata [Ted] ha saputo che ero lì, e io sapevo che lui sapeva, e la sua voce si è abbassata. Si vergognava di qualcosa. Ha pronunciato l’ultimo verso con l’espressione di uno strofinaccio stazzonato e io ho
sentito come un lampo di disgusto, di paura. Se ne stava là, accanto al corrotto Van Voris con la faccia bianca da lumaca, e la sua voce si deliziava delle parole: lombi, incesto, letto, fetido.
Mi sembrava di essere scivolata a piedi nudi in una fossa di viscidi vermi striscianti. Mi veniva voglia di raschiarmi la gola e sputare. Ted sapeva chi gli stava accanto e di chi erano le parole che stava leggendo. Si è scostato ed è scivolato via. Ma avrebbe potuto tirarsene fuori prima. Molto prima. Paul sarebbe felice che fosse Philip Wheelvvright a leggere la parte di Creonte.
Ted non è venuto da me, dopo. Sono rimasta in piedi lì davanti, sono uscita dal retro e ho chiesto al portiere dove fossero i lettori. Doveva dirmelo. In una stanza poco illuminata c’era Bill Van Voris afflosciato, molle come un invertebrato, in un divano a fiori, con le gambe allungate in avanti. Ted sedeva al pianoforte con una faccia cattiva, e pestava sui tasti con un dito solo, le spalle ricurve, una stridente melodia, una melodia che non avevo mai sentito prima. [Omissis.] Oh, questi predatori, come farò mai a cavarmela. Non parlava. Non sarebbe venuto via. Mi sono seduta. Poi ce ne siamo andati… Comunque, è stata una serata pesante,
stantia… Non so cosa ci sia d’altro in questa storia. E così è stato un incidente. [Omissis.] E così oggi è il mio ultimo giorno. O lo era. Armata di varie poesie di Ransom, Cummings e Sitwell, sono andata a lezione, ho ricevuto applausi direttamente proporzionali al mio gradimento della classe – un crepitìo alle 9, un fragore di tuono alle 11, e una via di mezzo alle 3. Avevo pensato a una sorta di cerimonia e chiesto a Ted di accompagnarmi in macchina e di restare sino alla fine del pomeriggio, così avrei potuto vederlo e far festa nell’esatto minuto in cui avrei finito la mia prima lezione. Così siamo andati. Stavo spiegando, tra le altre cose, “il separarsi senza conseguenze“: perfetto – sentenziavo sulla gioia della vendetta, sul pericoloso lusso dell’odio e
del rancore, e su come, anche quando astio e veleno siano ampiamente meritati, indulgere a queste emozioni possa, ahimè, essere dannoso. Ah, Ransom. Tutte armi a doppio taglio (3).
Prima della lezione avevo venti minuti. Ted ha pensato di portare dei libri in biblioteca e di ritrovarci alla macchina: di stare ad aspettarmi li sino alla fine delle lezioni.
[…]
Quando sono uscita, sono corsa al parcheggio, un po’ aspettandomi di incontrare Ted per strada, ma ancora di più di trovarlo in macchina. Ho spiato attraverso una prospettiva di finestrini ma non ho visto nessuna testa scura. La nostra auto era vuota e la cosa mi è parsa strana, proprio il giorno che abbiamo atteso con impazienza per ventotto settimane. Dopo un’ora e mezzo circa, ho visto invece Bill che congedava con un caloroso sorriso la sua studentessa tra i verdi cespugli di lillà ai lati del sentiero che va dal bar al parcheggio. Si è mosso verso di me ma io in fretta gli ho voltato le spalle, sono entrata in macchina e ho guidato
fino alla biblioteca, immaginando che Ted fosse nella sala di lettura, dimentico del tempo, immerso nell’articolo di Edmund Wilson sul “New Yorker“. Non c’era. Continuavo ad incontrare miei studenti rimasti dalla lezione delle tre. Ho provato lo strano impulso di andare a casa, ma non ero destinata a [vedere], allora, qualcosa di scioccante dentro l’appartamento, anche se mi ci ero già preparata. Mentre uscivo a grandi passi dall’ombra fredda della biblioteca, mi si è accapponata la pelle delle braccia, e ho avuto una di quelle tipiche visioni intuitive. Sapevo cosa avrei visto, in cosa necessariamente mi sarei imbattuta, e lo sapevo ormai da tanto tempo, anche se non ero sicura di dove e quando sarebbe stata la prima volta.
Ted stava risalendo la strada da Paradise Pond, dove le ragazze portano i loro ragazzi a pomiciare il fine settimana. Stava camminando con un sorriso aperto e appassionato, gli occhi negli occhi da cerbiatta alzati su di lui di una strana ragazza con i capelli scuri, un gran sorriso pieno di rossetto, e gambe nude e robuste nei bermuda color khaki. Ho visto tutto in una serie
di flash netti, come schiaffi. Non potevo vedere il colore degli occhi della ragazza, ma Ted sì, e il suo sorriso, anche se aperto e seducente come quello della ragazza, nel contesto aveva un che di sgradevole. Dopo Van Voris, il suo atteggiamento mi si faceva chiaro: il suo sorriso diventava troppo smagliante, diventava fatuo, avido di ammirazione. Stava gesticolando, proprio sul punto di concludere un’osservazione, una spiegazione. Gli occhi della ragazza erano trasfigurati da una stordita ammirazione. Mi ha visto arrivare. Il suo sguardo si è fatto colpevole e lei si è messa a correre, letteralmente, senza un saluto, senza che lui facesse
nessuno sforzo per presentarmela, come sicuramente avrebbe fatto Bill. Lei non ha ancora imparato a mentire di punto in bianco, ma imparerà presto. […] Strano, ma in me la gelosia si è mutata in disgusto. I ritorni a casa tardi, la mia visione, mentre mi spazzolavo i capelli, di un lupo ghignante, dalle corna nere, tutto è diventato chiaro, tutto si è combinato, quando me ne sono accorta mi è venuto da vomitare. Non sono più una col sorriso sulle labbra. Ted invece sì.
Il suo estetico distacco nei confronti delle ragazze che lui inganna chinandosi verso di loro, chinandosi verso gli occhi in adorazione – non la solita adorazione, ma una nuova, fresca, non corrotta. O, forse, già corrotta. Van Voris appare senza macchia. Dalle mani di giglio. Com’è che disprezzo tanto questo genere di vanità maschile? Perfino Richard l’aveva, piccolo e malaticcio
com’era a diciannove anni. Soltanto che era ricco, aveva la famiglia e quindi la sicurezza: una progenie di uomini in grado di comprarsi mogli migliori di quanto si meritassero. Come ha detto Joan: Ego e Narciso. Vanitas vanitatum. So cosa mi direbbe la Dr. B., e sento che adesso potrei parlargliene. No, non mi butterò dalla finestra, non mi schianterò contro un albero con l’auto di Warren, né riempirò il garage di casa di monossido di carbonio tanto per fare economia, neppure mi taglierò i polsi distesa in una vasca da bagno. Ho perso ogni fiducia e vedo fin troppo chiaro. Posso insegnare, e scriverò e scriverò bene. Posso andare avanti un anno così, forse, prima di dover fare altre scelte. Poi ci sono quelle -poche – persone a cui voglio un po’ di bene. E il mio strapazzato e inspiegabile senso di dignità, di integrità da mantenere.
Per troppo tempo sono andata avanti su fondi fiduciari. Su quel versante ho fatto bancarotta. […]

 

Martedì, 2 settembre….

Liz Taylor sta soffiando Eddie Fisher a Debbie Reynolds, che sembra un cherubino, con la faccia tonda, umiliata – Mike Todd ancora caldo. Strano come avvenimenti simili ci colpiscano tanto.
Perché? Per analogia? Mi piacerebbe dilapidare i miei soldi in parrucchieri, abiti. Eppure so che il potere è nel lavoro e nel pensiero. Il resto è soltanto un piacevole orpello. Amo troppo, troppo completamente, troppo semplicemente per qualunque genere di astuzia. Usa l’immaginazione. Scrivi e lavora per piacere. Senza critiche o lamentele. [Omissis.] Lui è un
genio, io sua moglie. […]

 

Boston, Mercoledì mattina, 17 dicembre [1958]

Un racconto del “Ladies’ Home Journal“, La lite del bottone? Chiedere alla Dr. B. del bisogno psicologico di litigare, di esprimere ostilità tra marito & moglie. La storia di una coppia “moderna“, senza figli, lei donna in carriera che dall’alto della sua posizione si può permettere di non attaccare bottoni e cucinare. Il marito pensa di essere d’accordo, ma litigano su chi deve attaccare i bottoni. A dire il vero non litigano per questo. Ma litigano perché lui ha idee convenzionali, profondamente radicate, sulle donne, come tutti gli altri uomini le vuole incinte e in cucina. La vuole umiliare in pubblico; detto dal punto di vista di una saggia zitella di
mezz’età?
Un consiglio? Beh, quel che sarà. Arrabbiata con R.B. perché ha spostato l’appuntamento a domani. Devo dirglielo? Mi fa pensare: lo fa perché io non pago. Nel farlo si nega simbolicamente, si tira indietro rispetto a una “promessa”, come mia madre che non mi ama, rompe la sua “promessa” di essere una madre affettuosa ogni volta che parlo con lei o le racconto qualcosa. Come se mi spostasse gli appuntamenti perché sa che non faccio storie e accetto di buon grado, il che significa che posso essere comodamente manipolata. La mia sensazione di insicurezza rispetto a lei accentuata da orari e luoghi ballerini e intercambiabili.
La domanda: sta provando a comportarsi così consapevole di come possa sentirmi, oppure sta semplicemente fissando gli appuntamenti come a lei va meglio?
Una diatriba con Ted su Jane Truslovv (4), “La conosci“, “Come faccio a conoscerle tutte?” e sui bottoni, lui ha detto a Marcia e a Mike che io: nascondo le camicie, straccio i calzini bucati, non attacco mai i bottoni. La sua giustificazione: pensavo che ciò ti avrebbe spinto a farlo. Così pensava, umiliandomi, di poter manipolarmi. La mia reazione: un’assoluta testardaggine, proprio come succede a lui quando io cerco di manipolarlo per fare qualcosa, tipo cambiare i posti alla conferenza di Truman Capote. Affinché io potessi vedere meglio alla conferenza di Truman Capote si sarebbe dovuto cambiare di posto, così come, affinché io gli attacchi i bottoni, sarebbe meglio, per Ted, mettersi camicie e giacche: ciò che rende, o ha reso, impossibile sia l’una che l’altra cosa è la sensazione che l’altro tenesse più ad essere lui a decidere che a quello che aveva deciso: si trattava della vittoria di uno sull’altro, non di una questione di posti a teatro e bottoni. Io questo lo vedo. Mi pare di capirlo. Ma lui no. Proprio come quando lui vuole manovrarmi in un certo modo (ad esempio farmi smettere di “brontolare“, che significa parlare di tutto ciò che a lui non va) e mi dice che sono come mia madre, cosa che, ne è sicuro, mi fa reagire emotivamente, anche se non è vera. [Omissis]. Il modo per lui più sicuro di vincere, e più semplice per farmi fare ciò che vuole, è di dirmi che sono proprio come mia madre, ogni volta che faccio o non faccio qualcosa che non vuole. Prendere coscienza di ciò significa essere già a metà della battaglia. Lo ammetterà dentro di sé? Del resto anch’io non sono meglio. Mani sporche, mani sporche [Omissis].

 

Venerdì mattina, 26 dicembre, 1958

Sto per incontrare la Dr. B. Una fredda mattina post-natalizia. Un bel Natale. Perché, sostiene Ted, ero allegra. Ho giocato, scherzato, fatto gli onori di casa alla mamma. Posso odiarla, ma non è tutto. Le… voglio anche bene. Dopo tutto, è normale, è sempre mia madre. Non può invaderti, se tu non ti lasci invadere. Quindi il mio odio e la mia paura derivano dalla mia insicurezza. Vale a dire? E come si combatte? Paura di fare scelte premature che mi precludano altre possibilità. Non ho avuto paura di sposare Ted, perché è una persona elastica, non mi porrà dei limiti. Problema: tutti e due vogliamo scrivere, prenderci un anno. E poi? Non vogliamo lavoretti. Una professione con un reddito sicuro: la psicologia? Come accrescere la mia indipendenza? Non dirgli tutto. Difficile, se lo vedo continuamente e non ho una vita fuori. Paura: crisi dopo aver visto la gente ad Harvard: sensazione di essermi messa fuori gioco. Perché non riesco a buttarmi nella scrittura? Perché ho paura di fallire prima ancora di cominciare. Vecchio bisogno di dare dei risultati a mia madre, per avere amore come ricompensa.
Litigo molto con Ted: due liti feroci. I veri motivi: siamo tutti e due preoccupati per i soldi: ne abbiamo abbastanza per arrivare al 1 ° di settembre. E poi? Come evitare che i problemi di denaro e di lavoro distruggano l’anno che abbiamo? Non vogliamo un lavoro che abbia a che fare con l’inglese: niente riviste, editoria, giornali, insegnamento: niente insegnamento per ora.
Problema di Ted e l’America. Non sa ancora che farsene. Capisco la sua depressione. Non voglio forzarlo o fargli fare qualcosa che non voglia. Però è preoccupato anche lui, soltanto che non ne parla.
Non sappiamo dove vogliamo vivere. Che lavoro faremo. Quanto dobbiamo contare sulla scrittura. Con la poesia non si campa. Forse libri per bambini. Ted: solido, gentile, tenero, appassionato, intelligente, creativo. Ma non siamo ancora abbastanza cresciuti: troppo spesso preferiamo i libri alle persone. Compulsione all’insicurezza. Se riesco a costruire me stessa e il mio lavoro, darò il mio contributo alla nostra coppia, non sarò una metà dipendente e debole.
Odio per la madre, gelosia per il fratello: soltanto quando ho dei dubbi sul tipo di vita da vivere in sostituzione di quella che essi sembrano prediligere. Finiranno per accettare, ma dobbiamo essere sicuri del fatto nostro. Non lo siamo: io non lo sono. Scoraggiamento per il lavoro. Non mi sono messa davvero al lavoro con la scrittura. Timore di una dispersione intellettuale senza
scopo. Bisogno di una professione che mi permetta di avere a che fare non in modo superficiale con la gente. Gelosia verso gli uomini: perché gelosa di Ted? Mia madre non può portarmelo via. Le altre donne sì. Non devo essere senza personalità: sviluppare il senso di me. Una solidità che non possa venire intaccata.

 

Sabato, 27 dicembre, 1958

 

Ieri ho avuto una seduta con R.B., abbastanza lunga e molto approfondita. Ho tirato fuori cose che mi hanno ferito e fatto piangere. Perché piango con lei e solo con lei? Sto sperimentando il dolore per amore di mia madre [Omissis]. Che cosa mi aspetto allora in materia d’amore.
Sento quello che cerco quando vedo R.B.? E per questo che piango? Perché perfino la sua gentilezza professionale mi sembra più vicina a ciò che desidero e non trovo in mia madre? Ho perso un padre e il suo amore precocemente: per questo ce l’ho con lei e ho la sensazione che lei creda che sia stata io ad ucciderlo (il suo sogno in cui io sono una ballerina di fila e lui prende la macchina e va ad annegarsi). Spesso ho sognato di perderla, e questi incubi dell’infanzia continuano ancora: ho sognato l’altra notte che rincorrevo Ted per un ospedale enorme, sapevo che era con un’altra donna, andavo nei reparti dei pazzi e lo cercavo dappertutto: cosa ti fa pensare che fosse Ted? Aveva il suo volto ma era mio padre, mia madre. In certi momenti lo identifico con mio padre, e questi momenti diventano molto importanti: ad es., il litigio alla fine dell’anno scolastico quando mi accorsi che in quel giorno speciale lui non c’era ed era con un’altra donna. Ho avuto un attacco d’ira furibonda. Sapeva quanto lo amavo e cosa provavo, e tuttavia non c’era. Non è forse un’immagine di quello che penso mio padre abbia fatto a me? Credo di sì, forse.

 

Sylvia Plath, da “Diari”, traduzione di Laura Costantini, 1982

 

Note

(1) Editore della “St. Botolphs Review“.
(2) Jean Stafford era la moglie di Lowell al tempo in cui egli le dedicò il suo primo libro.
(3) Gioco di parole intraducibile su Ransom, nome del poeta, e ransom, il prezzo del riscatto.
(4) Studentessa dello Smith che sposò Peter Davison

 

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Nella foto: Sylvia Plath e Ted Hughes

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