Affabulazioni

Moralità leggendarie. Amleto ovvero Le conseguenze della pietà filiale

10.12.2022

È più forte di me.

       Dalla finestra diletta, così belante ad aprirsi con i fragili vetri gialli fermati tra losanghe di piombo, Amleto personaggio bizzarro poteva, quando gli cantava, fare dei cerchi nell’acqua, come dire nel cielo. Questo fu il punto di partenza del suo cogitare e aberrare.

       La torre, dove il giovane principe s’era fermamente costretto a vivere dopo l’anomalo paterno decesso, s’erge lebbrosa e trascurata scolta in fondo al parco reale, sulla riva del mare che è di tutti. Tale angolo di parco è la cloaca che convoglia i rifiuti delle serre, gli spenti mazzolini degli effimeri balli. Il mare è il Sund, ai cui flutti non ci si può affidare, con la costa della Norvegia in vista o la città di Elsinborg, nido al malagiato e pratico principe Fortebraccio.

       L’assise della torre, dove il giovane e sventurato principe si è fermamente costretto a vivere, funghisce in riva a un’ansa stagnante che lo stesso Sund tende a arricchire con le schiume meno chiare dei suoi quotidiani e anonimi travagli.

       Povera ansa stagnante! Le flottiglie dei cigni regali dall’occhio lepido non vi fanno punto scalo. Dal fondo, lutulento per masse filamentose, salgono nei crepuscoli piovorni fino alla finestra di questo principe così umano i cori d’intere schiatte di rospi, viscidi rantoli espettorati da vecchi catarrosi cui una minima variazione atmosferica basta a rimuovere i reumatismi o le tenaci cove. E gli estremi risucchi delle navi da carico, come i perpetui acquazzoni, riescono a malapena a rimuovere la cutanea lebbra di quest’angolo d’acqua decrepita, ossidata da una scia bavosa di fiele (come della malachite liquida), qua imbrattata da mucchi di foglie piatte a forma di cuore attorno a dei rudimentali tulipani gialli, là irta di magri ciuffi di giunchi fioriti, di fragili ombrelle che, sia detto per inciso, ricordano il fiore della carota dei nostri climi.

       Povera ansa! Rospi di casa e fioriture irresponsabili. E povero angolo di parco! mazzolini buttati via da giovani donne proprio al rintocco di mezzanotte. E povero Sund! Flutti svillaneggiati dai capricciosi altani, rimpianti inviliti dalle più che usuali faccende di un Fortebraccio dirimpettaio!…

       Ecco perché (salvo burrasche) questo cantuccio d’acqua è davvero lo specchio dello sventurato principe Amleto, nella sua torre di paria, nella sua camera con due finestre vetrate di giallo che danno l’una sul grigio sporco dei cieli, sullo slargo e su un’esistenza senz’uscita, e l’altra che si spalanca al gemito perenne del vento tra gli alberi d’alto fusto del parco. Povera stanza così strapazzata in seno a un inguaribile, insolvibile autunno! Perfino di luglio, come oggi. È oggi il 14 luglio del 1601, un sabato; e domani è domenica: nel mondo intero le ragazze andranno candidamente a messa.

       Ai muri, una dozzina di vedute dello Jutland, quadri irreprensibilmente ingenui, ordinati tempo addietro a un pittore condannato alle galere e che le stanze del castello vedono esposti a dozzine. Tra le due finestre, due ritratti al naturale; il primo è di Amleto, molto mondano, con un pollice infilato nella cinta di cuoio grezzo e un sorriso accattivante dal fondo di una penombra sulfurea; il secondo è di suo padre, calato entro una bella armatura nuova, con l’occhio malizioso e faunesco: fu suo padre il re Orwendill, anomalmente deceduto in stato di peccato mortale e che Dio, secondo la ben nota misericordia, si tenga l’anima. Su un tavolo, nella luce d’insonnia dei vetri gialli, tutto un corredo d’acquefortista irrimediabilmente corroso da sporche amenità. Un ricettacolo graveolente di libri, un piccolo organo, uno specchio alto da terra, una sdraio; e una credenza col suo segreto (la paura di morire avvelenato dopo il losco paterno decesso). Nella stanza da letto, in prossimità del letto, un’edicola gotica in ferro battuto che per un gioco di chiavi è in grado di esibire due statuette di cera: Gheruta madre di Amleto e il suo attuale marito, l’adultero e fratricida usurpatore Fengo, modellati entrambi da un pollice ricco in estro vendicativo, e con il cuore puerilmente trafitto da un ago – il bel vantaggio! In fondo all’alcova, ahimè, una doccia.

       Nerovestito, con lo spadino al fianco e con in capo il suo sombrero da nottambulo, Amleto, i gomiti sul davanzale, contempla il Sund, il vasto e laborioso Sund che smercia il solito flusso di anonimi flutti, aspettando che il vento e l’ora offrano il destro per qualche superbo scherzo mancino a danno delle povere barche dei pescatori (unico svago alla fatalità che li opprime).

       Dopo il cielo di ieri e in previsione di quello di domani, oggi è una giornataccia livida siennò alleggerita dal recente acquazzone, che però promette una bella domenica per l’indomani. È già il crepuscolo, uno di quei crepuscoli che le Cronache del tempo riportano con un’emozione così contenuta; coi rumori della città di Elsinore, dal vasto specchio d’acqua messo tra sé e i dominii reali, che s’avvia a disperdere il frastuono del giorno di mercato affogandolo nelle taverne.

       –  Ah! sospira Amleto, – se come questi flutti io potessi spassarmela in lungo e in largo. Ah! dal mare alle nuvole, dalle nuvole al mare! vada come vada…-

       E abbracciando con un gesto ad hoc il felice inconsapevole panorama, così divaga:

       – Ah! solo che me ne occupassi… Ma tutto per istanti è così ricco e così labile! E niente è più prezioso d’un bel tacere, tacere, e agire di conseguenza… – Stabilità! Stabilità! il tuo nome è Donna… La vita, a rigore, posso anche ammetterla! Ma un eroe! Anzitutto essere condizionato dai tempi e dall’ambiente! La chiami lotta schietta e leale per un eroe, questa?… Un eroe! e tutto il resto non è che commedia!…

       – Quanto a me, se io fossi una giovane per bene, tollererei che solo un puro eroe osasse posare le sue labbra sul mio destino; un eroe di cui all’occorrenza si possano citare le formule, o le gesta… Ah! in tempi come questi di “danno” e di “vergogna”, Michelangelo dixit (uomo ben superiore ai nostrani Torwaldsen), non vi sono più giovinette; sono tutte samaritane, e tralascio le adorabili pupattole, ahimè, infrangibili, vipere e oche di prima piuma. – Un eroe! O semplicemente vivere. Metodo, Metodo, che vuoi da me? Sai bene che ho mangiato il frutto dell’incoscienza! Sai bene che sono io che annuncio la nuova legge al nato di Donna, e che sto soppiantando l’Imperativo Categorico per instaurare in sua vece l’Imperativo Climaterico!…

       Il principe Amleto ne ha tante sul cuore che non starebbero in cinque atti né in tutta la nostra filosofia che regge il cielo e la terra; ma ciò che al presente più l’infastidisce è l’attesa di quei commedianti che non arrivano e sui quali conta in modo così tragico; perdipiù egli ha appena fatto a pezzi le lettere di Ofelia scomparsa la vigilia, lettere scritte su carta doppia d’Olanda con una smania di mocciosa venuta su dal nulla, e talmente restie a essere lacerate che le dita gli bruciano ancora maledettamente. Miseria, e quisquilie!…

       – A quest’ora, dove si sarà cacciata? Da dei parenti in campagna, ma sicuro. Tornerà tornerà, conosce bene la strada. Del resto, e quando mai m’ha capito? Se ci penso! Aveva un bell’essere adorabile e sensitiva all’eccesso, sotto sotto saltava fuori l’Inglese imbevuta fin dalla nascita della filosofia egoistica di Hobbes. «Non v’è niente di più piacevole nel possesso dei nostri beni del pensiero che essi siano superiori a quelli degli altri» dice Hobbes. È così che Ofelia mi avrebbe voluto, come un suo «bene», anche perché io ero socialmente e moralmente superiore ai «beni» delle sue piccole amiche. E di che pensierini era capace sul benessere e sul conforto nell’ora in cui s’accendono le lampade! Un Amleto di comodo! Maledizione! Un po’ di pietà almeno per il mio angelo custode se non per me! Ah! se in una sera come questa m’apparisse qui, nella mia torre d’avorio, una sorella ma cadetta di quell’Elena di Narbona che seppe andare a conquistarsi a Firenze il suo adorato Bertrando, conte di Rossiglione, pur conscia del disprezzo di cui era ricambiata!… – Ofelia, Ofelia, mio dolce piccolo inganno, ti supplico fa ritorno; non ci tornerò più su. – Insomma mio caro, hai un bell’essere Amleto, sei sempre una simpatica canaglia. Basta così. – Ah, eccoli!

       Sulle rive d’Elsinore, laggiù a sinistra egli scorge (chi non sa dei suoi occhi sorprendenti, da rondine di mare?) un assembramento, e non v’è dubbio che si tratta di quei famosi commedianti.

       Il traghettatore li stava imbarcando sul suo battello piatto; un botolo abbaiava a quegli stracci; un ragazzino aveva smesso di giocare a rimbalzello. Uno di quei signori, tutto agghindato, afferrò un paio di remi imitando il traghettatore, col gesto di chi si degrada per divertire la compagnia, e puntarono alla volta di… Gli indici tesi indicavano il Castello, una dama lasciava pendere il suo braccio nudo sul filo dell’acqua; e i latrati le risa le voci giungevano stemperati come all’acquerello. C’era davvero materia per una bella serata secentesca.

       Lasciando la finestra Amleto s’installa davanti un tavolo, poi sfoglia due smilzi quaderni.

       – Eppure sì! L’impulso era di affidarmi all’orribile, orribile, orribile avvenimento al fine di esaltare la pietà filiale, figurarmi il fatto in tutta la sua irrefutabilità poetica, far gridare l’ultimo grido al sangue di mio padre! Ho preso gusto all’opera, io! Poco per volta dimenticai che si trattava di mio padre assassinato, spogliato di quel che gli restava da vivere in questo bel mondo (pover’uomo, pover’uomo!), di mia madre prostituita (visione che mi ha distrutto la Donna spingendomi a far morire di vergogna e di consunzione la celeste Ofelia!), del mio trono, per finire! Me ne andavo a braccetto con le finzioni di un bel tema. Che sia un bel tema, è indubbio! Rifeci il lavoro in versi giambici, intercalai accessori profani, espunsi dal mio vecchio Filottete una epigrafe sublime. Sì, scavavo i miei personaggi più addentro del vero! forzavo i documenti! Con immutato genio ho difeso la causa del bravo eroe e del pessimo traditore! Poi a sera, dopo aver ribadito un’ultima rima con una tirata a effetto, mi addormentavo sorridendo beato alle domestiche chimere, come un onest’uomo di lettere che col lavoro della penna mantiene una ricca prole! Mi addormentavo scordando di rivolgere le mie preghiere alle due statuine di cera e di ritorcergli l’ago in cuore! Va va, istrione! Guardatelo il piccolo mostro!

       E il giovane insaziabile principe corre a genuflettersi dinnanzi al ritratto di suo padre e ne bacia i piedi sulla fredda tela.

       – Vero che mi perdoni, padre? Tutto sommato tu mi conosci…

       E nel rialzarsi, non riuscendo a schivare l’occhio paterno, sempre e comunque ammiccante sotto un’aria regalmente faunesca:

       – Del resto, tutto è ereditarietà. Sii scienza e istinto e finirai col vederci chiaro.

       Torna a sedere presso i suoi quaderni, che contempla con uno stesso occhio regalmente faunesco.

       – Eppure vi sono delle belle pagine là dentro, se solo i tempi fossero meno grami!… Come vorrei essere semplice chierico a Parigi, monte Santa Genoveffa, dove oggidì fiorisce una scuola di neo-alessandrini! Un semplice misero bibliotecario alla corte brillante dei Valois! invece che in quest’umido castello, in quest’antro di sciacalli e di rozzi personaggi dove non si è nemmeno sicuri della propria pelle!…

       Hanno battuto due colpi con una chiave d’oro sul martello d’argento della porta. Entra un valletto.

       – I due primari della compagnia sono qua, secondo gli ordini di vostra Altezza.

       – Che entrino.

       – E poi sua Maestà la regina chiede se vostra Altezza persiste a volere che lo spettacolo abbia luogo proprio questa sera.

       – Diamine! e perché no?

       – Già ma anche il seppellimento del lord ciambellano Polonio ha luogo proprio questa sera, o vostra Altezza lo ignora?

       – Ma che ragionamenti! C’è chi recita e c’è chi sparisce dietro le quinte, ecco tutto. E l’Ideale si elegge ugualmente il suo massimino tutte le sere, suvvia, vecchio mio.

       Il valletto si fa da parte e chiude la porta dietro la riverenza dei due comprimari annunciati.

       – Entrate fratelli. Sedete e servitevi; ecco le sigarette. Qui c’è del Dubeck, e delle Bird’s-eye. Niente cerimonie in casa mia. Tu, come ti chiami?

       – William, replica l’attor giovane in farsetto a spicchi ancora impolverati.

       – E voi, mia giovane signora? (Dio com’è bella! Ancora dei guai!…).

       – Ofelia, riepiloga costei con nel sorriso un che di imbronciato, un sorriso infido da morire e così malefico che il giovane principe sbotta, tanto per creare un diversivo:   – Come! ancora un’Ofelia nella mia melassa! Oh, questa logora mania dei genitori d’imporre ai propri figli dei nomi teatrali! Perché Ofelia mica è preso dalla vita, oh, no! Sono tutte storie da palcoscenico e da repliche: Ofelia, Cordelia, Lelia, Coppelia, Camelia! Per un paria come me non avreste un altro nome di battesimo (di Battesimo, sia ben chiaro!), magari per farmi piacere?

       – Sì, Signore, mi chiamo Kate.

       – Alla buon’ora! EE vi sta meglio! Qua le mani, che ve le sbaciucchi Kate, come vuole il cerimoniale.

       E si alza, e la bacia in fronte, a lungo, su quella fronte a cui volta brusco le spalle per andare alla finestra e tuffare un istante il viso tra le mani.

       William fa un segno alla compagna:

       – Di’, non ci avevano ingannato. Lo è davvero.

       – Possibile? rispondono con tutta la mansuetudine blu di cui sono capaci gli occhi di Kate che, paffete!, Amleto t’incontra tornando al suo posto.

       Amleto alza le spalle, adulatorio:

       – Ebbene, ragazzi miei, basta con le cerimonie. Che cosa avete nel vostro repertorio?

       – Abbiamo Le Allegre Comari di Saint-Denis, Il Dottor Faustus, L’Apologo di Menenio Agrippa, Il Re di Tule.

       – Sì, sì, il resto posdomani, al suo momento. Tutte belle concezioni, ma non immacolate come le mie. Per qui e per stasera, mi studierete in segreto il dramma che vi dico io. D’altronde sarete regalmente ricompensati. È un mio dramma. Richiede solo tre ruoli principali. C’è un re, di nome Gonzago e una regina, Battista; il luogo è Vienna. La regina intrattiene relazioni adulterine e orditrici con il cognato Claudio. Un dopopranzo, il re fa la siesta: cova sotto la pergola i suoi peccati in fiore; la regina finge austeramente di mondare delle fragole per il risveglio dello sposo. Sopraggiunge Claudio. I due complici si scambiano un bacio silenzioso, poi fanno fondere del piombo in un cucchiaio e lo versano delicatamente nell’orecchio del re.

       – Che orrore! si lascia sfuggire Kate con un sospiro che finisce in broncio.

       – Orribile, vero? orribile! orribile! … Dunque dicevamo che versano del piombo fuso (questo liquido pallido!); il povero re Gonzago spira tra le convulsioni … orribili, orribili; e, badate bene, in stato di peccato mortale. Allora Claudio gli toglie la corona, se la calca sul capo e offre il braccio alla vedova. Ne consegue che, a dispetto dei pronostici più incresciosi, William sarà Claudio, e Kate la regina, due bei mostri, in fede mia.

       – È che… esita Kate.

       – È che, dichiara William, per consuetudine la mia compagna e io non incarniamo, di preferenza, che ruoli simpatici.

       – Simpatici? Razza di villani! E in base a che voi potete giurare se un essere è simpatico, in questo mondo? E il Progresso allora, dove lo mettete?

       – Sempre agli ordini del nostro grazioso signore.

       – William, a voi il manoscritto, ve lo affido e soprattutto non lo smarrite; sul serio, ci tengo. Studiatelo come si deve per stasera. E badate bene: tutto quello che ho segnato a matita rosso sangue di bue dovrà essere recitato con foga e sottolineato; e tutto quello che è compreso in una graffa a matita blu me lo potete sopprimere come troppo episodico, sebbene in fondo… tutto sommato queste strofe, per esempio:

       Un cuore sognante tramite occhiate

       Monde da ogni idea di zizzania!

       Mie povere forze estenuate dall’arte!

       A furia di ripetermi ho l’emicrania!…

              O luna di miele

              Cala, cala!

E questa:

       O animula tanto brava

       O carne fiera e incorrotta,

       È la mia indole che lotta

       Per essere vostra schiava.

       – Toh, com’è grazioso! si lasciano scappare William e Kate guardandosi.

       – Lo credo bene. Ah! se i tempi fossero meno grami!…

       E questa:

       Oh! va in convento!

       Coi tempi che corrono l’amore

       Lo si scambia incredulo e quieto

       Come un saluto.

       – Davvero singolare, ne conviene l’attore.

       E Amleto, principe di Danimarca e creatura sventurata, esulta!

       – E questo graziosissimo girotondo:

              C’era una bella blusa;

       Ron ron il gattino fa le fusa,

              C’era una bella blusa

       Con tutti i suoi bottoni… ecc.

       Eccetera, eccetera! – Insomma, un destino ben curioso il mio!… Ma questo, lasciatemelo: è il canto di trionfo dell’usurpatore Claudio, e lo si canta sull’aria di Ingannevoli premonizioni!… ricordate?

       Vi garantisco io

       Che Domenedio

       Avrà gran cura

       Di questa avventura!

       Dunque intesi. Ecco il manoscritto, ve lo riaffido, mio buon William. Lo spettacolo, del resto, non ha luogo che alle dieci e io verrò un po’ prima dietro le quinte per vedere come vanno le cose. O, nell’attesa, non vorreste che io mi proverbiassi con voi per farvi accettare questo?

       I due comprimari intascano e escono a ritroso.

       William declama in sordina alla compagna:

       La mattana è dappertutto e senza convenevoli

       Tocca il girovago o l’attore di genio

       E nemmeno la guardia che veglia alle porte

              Salva Amleto dalla malasorte.

       – Povero giovane! sospira angelica Kate, e dire che non sembra neanche pericoloso…

       Amleto, uomo d’azione, resta un bel po’ a sognare sul suo dramma ormai in buone mani. Poi si esalta:

       – Ci siamo. Messer Fengo capirà, a buon intenditore… Non resta che agire e apporre la mia firma! Agire! Ucciderlo! che vomiti la vita! Uccidere… Mi sono fatto la mano uccidendo ieri Polonio, mi spiava da dietro quel l’arazzo che raffigura la Strage degli Innocenti. Ah, ho tutti contro io! e domani Laerte e posdomani il dirimpettaio Fortebraccio! Devo agire, mi è d’uopo uccidere o evadere da questo luogo. Oh! evadere… Libertà libertà! Amare vivere sognare, essere famoso ma lontano! Oh, cara la mia aurea mediocritas! Ciò che manca a Amleto è la libertà, proprio così. – Non chiedo niente a nessuno io. Non ho amici, non un amico in grado di raccontare la mia storia, un amico che mi preceda ovunque evitandomi le intollerabili spiegazioni. Non una donna che mi sappia apprezzare. Dimenticavo, una samaritana! samaritana per amore dell’arte, che concede i suoi baci solo ai moribondi, in sull’estremo, che non possano poi vantarsene.

       – E pensare che in fondo io esisto! che ho una vita tutta mia! Un’eternità in sé prenatale, un’eternità in sé dopo morto. Invece passo i miei giorni ingannando il tempo! con la vecchiaia alle porte, l’orribile vecchiaia venerata e riverita dalle giovinette, da ipocrite ragazze abitudinarie. Mica posso scalpitare così anonimo! Come se bastasse lasciare delle Memorie… Amleto Amleto, se lo si sapesse! Tutte le donne verrebbero a singhiozzare sul tuo cuore divino, come in passato andavano a singhiozzare sul corpo di Adone (con qualche secolo di civiltà in più).

       – Bah, che se ne farebbero della mia biografia, attaccate come sono al loro pane quotidiano, ai loro amori e ai circostanti decessi? Sì certo, per un momento, sulla scena, dopo che hanno banchettato; ma una volta rientrati alla magione!… – Uomini e donne in coppia ammireranno i mei scrupoli esistenziali ma non li imiteranno davvero, né perciò proveranno maggior vergogna tra loro, da uomo amato a donna amata, nell’intimità. Poi, mi si accuserà di aver fatto scuola! E se io lo nominassi il mio dannato Maestro, il mio Maestro universale! – Tuttavia, ah! come sono solo! È così, l’epoca non vi può niente. Ho cinque sensi che mi annodano alla vita; ma il sesto senso, quel senso dell’Infinito! – Fortuna che sono ancora giovane, e fintanto che godrò ottima salute andrà tutto bene. Ma la Libertà! la Libertà! E sia, me ne andrò, ritornerò anonimo tra la brava gente e farò un matrimonio valido per la vita e per ogni giorno. Di tutte le mie idee questa sarà stata la più amletica. Ma stasera bisogna agire, bisogna oggettivarsi! Avanti, passando sulle tombe, come la Natura!

       Amleto lascia la sua torre, imbocca un lungo corridoio tappezzato di monotone vedute dello Jutland (che passando copre di eroici sputi) quindi svolta in un pianerottolo dove i due alabardieri di guardia hanno appena il tempo di riconoscerlo e di fare il presentatt’arm; altri, su delle panche giocano agli aliossi. Amleto gli grida passando: Sustine et abstine! Libertà, libertà! e fischiettando scende ancora una rampa di scale e sbuca sotto il peristilio d’ingresso, davanti alla loggia del castellano.

       La finestra del castellano è aperta, alla persiana è appesa una gabbia. Prima ancora di vedere la gabbia Amleto ci si butta sopra, la spalanca, vi coglie un tiepido canarino appisolato, gli torce il collo tra pollice e indice e, sempre fischiettando allegramente, lo scaglia in fondo alla stanza, proprio in testa (oh, ma per caso) a una bimbetta che sta lì col suo lavoro all’uncinetto, profittando dell’ultimo sprazzo di luce, e che smette, gli occhi spalancati e le mani giunte, di fronte a quel fulmineo misfatto!

       Amleto scappa senza voltarsi. E di colpo torna indietro, si avvicina alla finestra, entra nella camera. La piccola è sempre là, a mani giunte. Amleto si getta ai suoi piedi.

       – Oh! perdono! perdono! Non l’ho fatto apposta! Espierò ciò che vorrai se me lo ordini. Sapessi come sono buono! Ho un cuor d’oro come non se ne fanno più. Vero che tu mi capisci?

       – O mio signore, mio signore! balbetta la bimba. Oh! se sapeste! Vi capisco tanto! è da tanto che vi amo! Ho capito tutto!…

       Amleto si alza. «Eccone un’altra!» pensa.

       – Hai un padre infermo?

       – No mio signore.

       – Peccato: gli faresti degli ottimi cataplasmi.

       – Oh, voi, voi! Saprei curarvi così bene!

       – Ma certo, ripasserò lunedì prossimo; il mio cancro non suppura ancora (non so proprio perché). A lunedì, mio angelo.

       Debitamente sollevato Amleto se ne va. «È sempre per allenarmi» pensa «che ho ucciso quell’uccellino».

       Giovane e sventurato principe! Dopo il davvero anomalo decesso del padre, strani impulsi di distruzione lo afferrano spesso alla gola.

       Un giorno Amleto era partito di buon’ora per la caccia. Allora la premeditazione l’aveva tenuto desto tutta notte (la notte che porta consiglio). Armato di pregevolissimi spilli esordì infilzando gli scarabei che la Provvidenza gli faceva trovare sul suo cammino, lasciandoli poi proseguire in quello stato. Strappò le ali alle futili farfalle, decapitò le lumache, tagliò a rospi e rane le zampe posteriori, spolverò di salnitro un formicaio e v’appiccò il fuoco, raccolse più e più nidi pigolanti tra le fratte, per abbandonarli alla corrente, e così vedano il mondo; falciando nel frattempo a dritta a manca miriadi di fiori, ignorando a bella posta le loro virtù terapeutiche. Dopodiché, a caccia! Lo incantava la foresta coi suoi mille brusii primaverili, non diversamente da come l’avrebbe incantato una camera di tortura coi suoi mille sfrigolii sui fornelli! E la sera, finalmente, dopo una vana siesta più in là sotto gli alberi che non hanno occhi per vedere, ritornando sui suoi passi, uno spasimo residuo lo spinse a prelevare dalle vittime, che non avevano saputo celarsi per morire e che ritrovò sul suo cammino, una libbra di occhi perforati; ci si lavò le mani, se ne ingrassò le falangi facendole scricchiolare, già tutte indolenzite. Ah! IL DEMONE DELLA REALTÀ! il piacere di constatare che la Giustizia non è che una parola, e che tutto è lecito – con ragione, per Dio! – contro gli esseri inferiori e muti. Ma avvicinandosi al castello, istupidito dall’insonnia e dalle esaltazioni, Amleto avvertiva che la diffusa pena del crepuscolo io stringeva dappresso per strangolarlo. Rientrò furtivo correndo a rinchiudersi nella sua torre, guazzando stralunato ai buio dentro un brulichio di sbatter d’occhi forati, occhi spenti imbrattati di lacrime inessicabili, finché si rannicchiò così vestito sotto le coperte, bruciando un sudor freddo, piangendo un elisir di lacrime, disposto a idee quasi suicide o mutilanti a espiazione; auscultando il suo buon cuore, il suo cuor d’oro sommerso per sempre in quel pantano di poveri occhi forati, eternamente meditabondi. – E l’indomani: «Bah! Ero davvero ridicolo! Le guerre allora? E i tornei da mattatoio dei bei tempi andati, e il resto! Povero provinciale! Ciarlatano! Callista!».

       L’irreparabile assassinio dell’uccellino non è che turbi, dunque, più che tanto Amleto, – un semplice clic di valvola in accordo coi suoi animal spirits. Comodo davvero: e se Amleto non è ancora al punto di pensare di non aver apprezzato alla stessa stregua la triste Ofelia (oh! non molto diversamente, povera implume!) il suo Angelo Custode non è da meno.

       Il cimitero di Elsinore giace ammucchiato verticalmente sulla strada maestra, a venti minuti dalla città. Amleto passa sotto la tripla porta di cinta; qui hanno vita cinque o sei stamberghe grazie al corpo di guardia; poi è la campagna, come dappertutto, triste e piatta, oltre le difese…

       Degli operai fanno ritorno; degli oziosi sostano, incerti sul da fare, a quell’ora in città.

       A Elsinore il principe Amleto non lo riconoscono proprio. Esitano, non lo salutano. Né la sua esile figura è fatta… Ma giudicate voi.

       Di media statura, costituzionalmente bene in carne, Amleto ha una testa allungata, un po’ infantile, che porta non troppo eretta; dei capelli castani che spiovono a punta sulla fronte nobile, per ricadere lisci e deboli, spartiti da una bella riga dritta, a nascondere due graziose orecchie di fanciulla; una maschera imberbe ma senza che dia nel glabro, d’un pallore quasi artificiale eppure giovanile; due occhi blu-bigi sempre stupiti e candidi, ora frigidi ora scaldati dalle insonnie (ventura vuole che questi occhi romanzescamente timidi irradino pensieri limpidi e non infangati, perché Amleto, con la sua aria di guardare sempre all’ingiù come di chi cerca di definire con invisibile antenne il Reale, farebbe pensare più a un camaldolese che a un principe ereditario di Danimarca); un naso sensuale; una bocca ingenua normalmente aspirante ma che passa presto dal semichiuso tenero al rictus un po’ losco dei gallinacei, e da una simile grinta stiracchiata agli angoli pei ferri delle odierne galere all’irresistibile risata tagliata a salvadanaio di un ragazzetto paffuto sui quattordici anni; il mento, purtroppo, non è affatto sporgente! e ancor meno volitivo è l’angolo del mascellare inferiore, salvo nei giorni di noia immortale quando con l’avanzare della mascella e, di conseguenza, con l’arretrare nell’ombra della fronte vinta, l’intera maschera si ritrae come invecchiata di ventanni. E ne ha trenta. I suoi piedi sono femminili; le mani solide e un po’ contorte e contratte, all’indice della sinistra porta uno scarabeo egizio di un bel verde smalto. Non veste che di nero, e se ne va se ne va con un piglio strascicato e corretto, corretto e strascicato…

       Ed è con un piglio strascicato e corretto che Amleto si dirige verso il cimitero al calar del sole.

       Incrocia branchi di proletari, vecchi, donne e bambini che fanno ritorno dalle quotidiane capitalistiche galere, curvi sotto il peso di un destino sordido.

       – Perdio! cogita Amleto, lo so quanto voi se non meglio; l’attuale ordine sociale è uno scandalo da far mozzare il fiato alla Natura! e io non sono che un parassita feudale. E con questo? Sono nati là dentro, è una vecchia storia, il che non impedisce le loro lune di miele, né la loro paura della morte; e tutto è bene quel che non ha fine. – Ma svegliatevi una buona volta! e fatela finita! Mettete tutto a ferro e a fuoco! Schiacciate come cimici d’insonnia religioni caste lingue idee! Rifateci un’infanzia fraterna sulla Terra, che è nostra madre, e si vada tutti a pascolare in climi più temperati.

       Nei Giardini dei nostri istinti

       Coglieremo di che guarirci.

       Sì, stai fino se li aspetti! Sono troppo imbevuti di domestiche tirannie per osare, e non ancora sufficientemente estetici e chissamai per quanto tempo ancora troppo vili dinnanzi all’Infinito. Che inghiottano a bocca aperta un Polonio, filantropo da strapazzo, che snocciola loro: «Arricchitevi!» – E dire che per un attimo ho avuto anch’io la mia follia apostolica, come Ciakya-Muni figlio di re! Oh! lallà, io e la mia impagabile esistenziucola (da dividere con un’impagabile donnacola) dovremmo prendere l’iniziativa? E perciò usare la mia fragorosa testa matta! Via, non siamo più proletari dei proletari. E tu, Giustizia umana, non sii più forte che Natura! Amici miei, fratelli: l’approssimativo storico o l’evacuativo apocalittico, il caro vecchio Progresso o il ritorno allo stato di natura. Nell’attesa, buon appetito e buon divertimento per domani che è domenica.

       Ardua è la salita che dal viottolo mena al cimitero. Amleto s’imbroncia gualcendo dei papaveri tra le dita. È arrivato troppo tardi: la cerimonia che aveva per tema Polonio è seppellita; già se ne vanno le ultime ombre ufficiali. Accovacciato dietro una siepe Amleto le lascia passare senza essere visto; c’è chi dà il braccio a Laerte, figlio del defunto, che fa proprio pena. Una voce fuori della grazia di Dio esclama: «Ma quando si ha un pazzo in casa lo si rinchiude!»

       Nel rialzarsi Amleto si accorge di aver disturbato seriamente un formicaio. – «Tanto vale! pensa. E perché il Caso mi sia debitore…» e lo finisce a colpi di tacco.

       Sono usciti tutti. Nel cimitero Amleto non trova che due becchini e si avvicina al primo che sta sistemando le corone deposte sulla tomba di Polonio.

       – Avremo il suo busto solo il mese entrante annuncia, non invitato, l’uomo.

       – Di che cosa è morto, si sa?

       – Di un urto apoplettico. Era un buontempone.

       A questo punto Amleto che, in coscienza e malgrado una natura così artista, non se n’era ancora avveduto, intuisce che ha davvero ucciso un uomo, soppresso una vita, una vita di cui si può rendere testimonianza. Il nomato Polonio … intravvedeva davanti a sé quarantanni buoni almeno (era di quelli che in ogni occasione vi ricordano di godere di una salute di ferro) e con una stoccata inconsulta ma fatale Amleto, proprio così, glieli ha cancellati, come si taglia in un preventivo troppo salato. Derisorie diatribe di fenomeni che non hanno senso alcuno fuori di questa terra!

       Amleto si pianta davanti a quel becchino che l’osserva aspettandosi dei complimenti per come ha disposto le corone; lo squadra dall’alto in basso, poi gli ringhia in faccia: «Words! words! words! capite? parole parole parole!»

       E si dirige verso l’altro becchino, incurante del suo grido: «E vattene fannullone!»

       – E voi, brav’uomo, che cosa fate qui?

       – Sua Signoria lo vede, risistemo le vecchie tombe. Ah! è da quel dì che i vecchi hanno smesso di asciugare i muri da queste parti. Il nostro cimitero è rimasto sempre così piccolo, mentre le cortesie del defunto re hanno raddoppiato quasi la popolazione della sua cara città.

       Il becchino, un po’ bevuto, cerca l’equilibrio su una zappa.

       – Ah, davvero? raddoppiato la popolazione…

       – Si vede che Sua Signoria non è di queste parti. Il defunto re (morto pure lui di un urto apoplettico) era sottaniere ma bell’uomo e cuor d’oro, e dappertutto dove ingravidava si lasciava dietro un buon ricordo e scudi sonanti con la sua effigie.

       – E dite un po’, il principe Amleto è proprio il figlio di sua moglie Gheruta?

       – Eh no affatto! Sua Signoria avrà forse sentito parlare del matto mattissimo defunto Yorick…

       – Naturalmente.

       – Ebbene, il principe Amleto non è altro che suo fratello per parte di madre.

       Amleto fratello di un buffone di corte; non s’è poi fatto «tutto da sé» come credeva!…

       – E quella madre… lei?

       – Sicuro, la madre era la più maledettamente bella zingara che, col vostro rispetto, si sia mai vista. Era venuta da queste parti dicendo la buona sorte col figlio Yorick. Fu trattenuta al Castello e un anno dopo morì mettendo al mondo il nobile Amleto; quando dico mettendo al mondo… Morì del taglio cesareo che le fecero.

       – Ah! ah! non è poi stato tanto facile accalappiare Amleto in questo basso mondo!…

       – Proprio così. Era seppellita dove Sua Signoria vede che abbiamo sterrato. Un mese fa viene un ordine della regina di riesumare i resti e di bruciarli malgrado che la zingara fosse cristiana quanto voi e me, e così quel giorno facemmo a chi più imbotta. Poi è venuto il turno del suo povero Yorick, di cui Sua Signoria può calpestare qui i resti.

       – Non ci penso proprio.

       – Devo aggiustarmi per far posto entro un’ora al corpo della nobile figlia di Polonio, Ofelia, che hanno ritrovato. Eh già, siamo tutti mortali.

       – Ah! Ofelia… Ia damigella è poi stata ritrovata?

       – Sissignore, vicino alla chiusa. È suo fratello Laerte che è venuto stamane a avvertirci. Faceva una pena, povero giovane. È molto amato. Sapete che si occupa del problema degli alloggi degli operai? Davvero succedono di quelle cose…

       – E in giro si dice che il principe Amleto è diventato pazzo, non è così? (Mio Dio, mio Dio! vicino alla chiusa…)

       – Si, è una rovina. L’ho sempre detto che siamo maturi per l’annessione. Un bel mattino il principe Fortebraccio di Norvegia ci sistema tutti. Io il mio gruzzolo l’ho già convertito in azioni di Norvegia. Tutto questo non m’impedirà di lisciare il fiasco domani che è domenica.

       – Bene bene, continuate il vostro lavoro.

       Amleto gli mette in mano uno scudo e raccoglie il cranio di Yorick, poi si perde con la sua andatura strascicata e corretta tra musolei e cipressi, gravato da destini, da ben loschi destini, non sapendo troppo che fare per rimettersi con un po’ di decenza nel suo ruolo.

       Amleto si ferma, col cranio di Yorick accostato all’orecchio e ascolta, ascolta, rapito…

       – Alas, poor Yorick! Come uno crede in una sola conchiglia di sentire il gran fracasso dell’Oceano, sembra a me d’ascoltare qua dentro inestinguibile la sinfonia dell’anima universale di cui questa scatola fu un crocicchio di echi. Ecco un’idea ben fondata. La vedete voi una specie umana che non andasse più addentro in fatto di spiegazioni sulla morte, vale a dire in fatto di religione e che si attenesse a quel fragore vagamente immortale che risuona nei crani? Alas, poor Yorick! I cari elminti hanno degustato l’intelletto di Yorick… era un ragazzo di un umorismo a dir poco infinito, a me fratello (una stessa madre per nove mesi) se fratello lo si può usare in una accezione particolare. Fu qualcuno. Aveva l’io minuzioso, aggrovigliato e ritorto; si vantava. E tuttociò dov’è finito? Né visto né conosciuto. Neppure più traccia del suo sonnambulismo. Il buonsenso in sé, dicono, non lascia traccia. C’era una lingua qua dentro, che barbugliava: «Good night, ladies; good night, sweet ladies! good night, good night!» E che musica, che fioritura spesso di scurrilità. – Egli prevedeva! (Amleto fa il gesto di buttare avanti il cranio). Egli si ricordava. (Stesso gesto indietro). Parlava, arrossiva, SBADIGLIAVA! – Orribile orribile orribile! – Ho ancora ventanni, forse trenta da vivere, e verrà il mio turno come per gli altri. Gli altri? – Oh Tutto! che miseria non esserci più! – Ah! voglio andarmene già domani e informarmi in giro pel mondo dei processi più adamantini d’imbalsamazione. – Vissero anch’essi, i piccoli personaggi della Storia, imparando a leggere, curandosi le unghie, accendendo ogni sera la lampada sporca, innamorati, golosi, vanesii, avidi di complimenti di strette di mano e di baci, nutrendosi di ciarle di parrocchia, dicendo: «Che tempo farà domani? Ecco che viene l’inverno… Quest’anno non abbiamo avuto prugne». – Ah, tutto è bene quel che non ha fine. E tu, Silenzio, perdona alla Terra; la girellona non ha troppo la testa a segno; il giorno della grande addizione della Coscienza di fronte all’Ideale essa sarà catalogata con un povero idem nella colonna evoluzioni-in-miniatura dell’Evoluzione Unica, nella colonna delle entità trascurabili. – E poi, parole parole parole! Questo il mio motto finché non mi si dimostrerà che le nostre lingue sposano bene una realtà trascendente. – Quanto a me, potrei col mio genio essere ciò che comunemente è detto un Messia se non fossi troppo ma troppo viziato come un Beniamino della Natura. Io intendo tutto, io adoro tutto, io voglio fecondare tutto. Ecco perché, come l’ho inciso sul muro del mio letto in un distico regolarmente canagliesco:

       La facoltà mia rara d’assimilazione

       Avversa il corso della mia vocazione.

       Mi annoio ma in un modo veramente sublime! – Insomma, che cosa aspetto qui? – La morte! La morte! E chi mai, con tutto il suo ingegno, trova il tempo di pensarci? Io morire? Via, via! ne riparleremo con calma domani. – Morire! D’accordo che si muore senza accorgersene come ogni sera si scivola nel sonno; non si ha coscienza del passaggio dall’ultimo pensiero lucido al sonno alla sincope alla Morte. D’accordo. Ma non essere più, non esserci più, non esserne più! Solo al pensiero di non poter più stringere sul cuore, in un pomeriggio qualunque, la secolare tristezza racchiusa nel più piccolo accordo di piano! – Mio padre è morto, la carne di cui sono un prolungamento non è più. Giace da quella parte, allungato sul dorso con le mani giunte. Che posso farci, più di passare un giorno a mia volta per di là? Così anch’io sarò visto, dignitosamente allungato con le mani giunte, senza ridere! E diranno: «Dunque è finito là anche lui, quel giovane Amleto talmente vezzeggiato, talmente ricco di un amabile brio? È lui là, fattosi talmente serio, né più né meno come gli altri; che con tanta dignità ha subìto senza ribellarsi il grandissimo torto di essere là?»

       Amleto si prende il futuro cranio di scheletro tra le mani e prova a rabbrividire con tutte le sue ossa.

       – Oh! attenzione! Cerchiamo di essere seri in questo luogo! Oh! dovrei saper trovare delle parole appropriate! Ma che ci posso fare se a tuttociò io resto freddo? – Vediamo un po’: se ho fame ho la netta sensazione del cibo; se ho sete ho la netta sensazione del liquido; se avverto che il mio cuore è disponibile posso piangere sul sentimento degli occhi amati e della pelle tenera; dunque se l’idea della morte mi è tanto estranea, vuol dire che sono ebbro di vita, che la vita mi ha in pugno, che la vita mi riserba qualcosa! Ah! vita mia, a noi due dunque!

       – Ehi voi laggiù! gli grida dietro il secondo becchino, sta giusto salendo il corteo funebre di Ofelia!

       Il primo impulso del pensatore Amleto è di scimmiottare ad arte il pagliaccio sorpreso nel sonno da un colpo di mazzuolo di grancassa sulla schiena, ed è a malapena ch’egli riesce a reprimerlo. Poi scivola dietro una balaustra trilobata a giorno e s’apposta in attesa.

       Il malinconico corteo sbuca fuori (una volta per sempre!). Per gli scossoni dell’erta, alcune rose bianche cascano dal velluto nero che copre il feretro (cascano, ahi noi! una volta per sempre!).

       – Non è che pesi poi tanto, cogita partecipe Amleto. Dimenticavo; sarà gonfia d’acqua come un otre, la sudiciona; ripescata nella chiusa! Doveva finire da quelle parti, avendo dato fondo senza criterio alla mia biblioteca. – Oh, mio Dio! Ora apprezzo certe sue occhiate blu! Povera sventurata ragazza! Così magra e così eroica! Cosi inviolata e così modesta! – Ma pazienza! è la rovina delle rovine! Domani il conquistatore Fortebraccio ne avrebbe fatto la sua amante; quanto a questo è un vero turco! Ben’inteso, ne sarebbe morta di vergogna, la conosco, l’avevo bene ammaestrata io! Se ne sarebbe andata all’altro mondo lasciandosi dietro una pessima reputazione di Bella Elena, non fosse che io…

       Per un attimo si smemora Amleto seguendo i gesti dei frati officianti intorno alla fossa; si sbrigano i fratoni perché domani è domenica e avranno il loro da fare. Una ragazza, è così presto seppellita che sposata. Ma dove lo trovi il tempo di reagire a tuttociò? Tanto lunga è l’arte quanto breve è la vita! E per il suo umile ruolo, Amleto non può che provare un brivido di rimorso a fior di nervi.

       – Sebbene! sebbene! Io che sono cosi buono di cuore io che, come tutti sanno, ho un cuor d’oro, aver fatto questo! Oh, Amleto, vergognati!… – Povera Ofelia, povera Lilì; era la mia piccola amica d’infanzia, io l’amavo! Proprio così! chiaro e lampante. Inoltre non chiedevo di meglio che di rigenerarmi secondo lo sguardo del suo sorriso. Ma tanto grande è l’Arte quanto breve è la vita! E la praticità è inesistente. Da parte di madre e di fratello, e di tutto, ero dannato in partenza. (Dev’essere così). Di conseguenza, dunque, la pena che allora non potevo mancare di farle, la rese magra al punto che la fede che in tempi migliori le avevo infilato al dito cadeva ogni momento, prova celeste questa che… E poi aveva un’aria di moritura! e ancora, con tutti quei balli a corte dove ci si scolla già all’età di sedici anni, le sue spalle non furono per me una verginità da saccheggiare; il diavolo mi porti se ricordo quando vidi per la prima volta le sue spalle! Ora, è risaputo che la verginità delle spalle per me è tutto, su questo io non transigo. E poi, con tutto il celeste dei suoi sguardi alzati, non era diversa dalle altre. Avevo le mie buone ragioni per essere deluso. Non mi mancava che di osservare i suoi piccoli atti di femmina; dentro di me pensavo: «A quali occhi ormai credere, dannazione! Avrei dovuto cavarglieli, quegli occhi, e lavarmici le mani». Del resto, per finire, c’era quella voce infernale che arrivava sempre un bel po’ prima ai nostri appuntamenti e che m’intronava la testa fino a farmela perdere coi suoi «l’abbraccerà! No! Assolutamente! No, parole parole parole!» Era da impazzire; devo risparmiarmi. – Su, su, salmodiate Holy, holy, holy, Lord God Almighty! La personalità divina, ma che idea! Quando si dice fabbricare una personalità. – Il suo paradiso è quanto ancora ricordo. Perché, effettivamente, essa aveva ciò che chiederò sempre alla fidanzata del mio genio, una bocca di un’ingenuità accogliente ma custodita da due occhioni che sanno, o meglio (come quell’attrice Kate, ammettiamolo) due sottili occhi blu vagabondi e creduli, custoditi da una bocca devastata con la piega amara agli angoli, immortalmente sulle sue. E il suo profilo, qui del resto sta il metro per valutare la bellezza della donna, non ricordava il profilo di nessun animale, dal bull-dog alla gazzella. Ma che nell’intimità io abbia colto in lei una sfumatura canina. Insomma, era una santa in gonnella. Sarebbe stato un guaio che invecchiasse. Amante di Fortebraccio poi! Ah, Ofelia, come non eri nata per essermi compagna! come non eri abbastanza sconosciuta per esserlo! L’ho aiutata ad appassirsi e la Fatalità ha fatto il resto.

       Ofelia, Ofelia

       Il tuo bel corpo sullo stagno,

       Tanti giunchi galleggianti

       In preda alla mia rancida follia…

       La cerimonia volge al termine (una volta per sempre!). Si sentono risuonare sulla bara le palate di terriccio, ahi!, risuonano sulla bara una volta per sempre!…

       – Ripeto, aveva un torso angelico. C’è forse un rimedio, adesso, a tuttociò? Orsù: dieci anni della mia vita per risuscitarla! Dio non fiata! Aggiudicato! Vuol dire che non c’è un Dio o che non mi restano neppure dieci anni di vita. La prima ipotesi, naturalmente, mi sembra la più vitale.

       Amleto, uomo d’azione, lascia il suo nascondiglio solo, beninteso, dopo essersi accertato che quell’animale di Laerte se n’è andato con tutta l’onorata compagnia.

       – Fratello mio Yorick, porto a casa il vostro cranio; gli darò un posto d’onore sullo scaffale dei miei ex-voto, tra il guanto di Ofelia e il mio dente di latte. Ah! con tutto quel che è successo ne avrò del lavoro quest’inverno! Ho dell’infinito in cartellone.

       Cala la notte, è tempo d’agire! Amleto ricalca la via del Castello senza lasciarsi troppo prendere dalla quotidianità notturna delle grandi strade. Per prima cosa sale sulla torre a posare quel cranio, ninnolo solenne. Resta un istante, coi gomiti appoggiati alla finestra, a contemplare la bella luna piena d’oro che si specchia nel mare calmo dove serpeggia una colonna franta di nero velluto e d’oro liquido, magica e senza scopo.

       Riflessi su di un’acqua malinconica… La santa dannata Ofelia ha galleggiato così tutta la notte…

       – Oh, non per questo posso uccidermi, privarmi della vita! Ofelia! Ofelia! Perdonami! Non piangere così!

       Amleto rientra in camera sua brancolando febbrilmente.

       – Non posso tollerare le lacrime delle ragazze. Sì, far piangere una ragazza mi sembra più irreparabile che sposarla. Perché le lacrime sono della prima infanzia; perché il versar lacrime esprime semplicemente un dispiacere così profondo che tutti gli anni d’incallimento sociale e di ragione si sgonfiano e vanno a picco dentro questa sorgente zampillata dall’infanzia, dalla creatura elementare incapace di fare del male. Begli occhi di Ofelia, malgrado tutto inviolati proprio perché inaddomesticabili, addio! Si fa tardi, è tempo d’agire. Rimandiamo baci e teorie.

       Amleto scende a vedere come va il suo dramma.

       Un corridoio dove normalmente si conservano i cibi pei gran balli di gala è stato diviso in tante piccole stanze per servire da camerini agli attori.

       Amleto, senza pensarci troppo, spinge con dolcezza la porta di uno di quei camerini e entra. Ma resta sulla soglia: e chi ti vede là tra i bauli sfatti, piangente come una Maddalena scossa dagli ultimi singhiozzi di una crisi? proprio lei, Kate, stesa sul pavimento in una veste di broccato rosso laminato a strisce d’oro, le braccia e le spalle offerte, libera ancora dal corpetto e col seno nudo sotto una camicetta tutta a pieghe, là, come una povera creatura, forse consolabile.

       Dolcemente e con destrezza Amleto si chiude la porta alle spalle e s’approssima alla nuova storia.

       – Allora? cosa c’è Kate? Che cosa c’è?

       La bella Kate non sembra poi tanto commossa dalla presenza di sua Altezza. Resta ancora a lungo prostrata nella superiorità delle sue lacrime, nella superiorità della sua infanzia ritrovata. Ma dato che prima o poi bisogna sempre arrivare al dunque, essa si alza e senz’altro segno d’interessamento per sua Altezza che di voltargli le spalle, riprende a aggiustare, qua e là nel disordine, il suo costume di regina di una sera lottando irritata contro i nodi dei lacci in un residuo di lacrime. – Malgrado tutto è generosamente bella! Oh certo, se gli parla, se gli parla sfiorando l’amletismo senza immergervisi, Amleto è perduto! Perduto e vinto!

       – Su, non è proprio così; Kate, amica mia, ma che c’è?

       E la prende con dolcezza per la vita.

       – Ditelo, a me.

       Ed ecco che la bella Kate lo fissa immortalmente, poi si lascia andare affondando il viso nel petto del casto principe e riprende a singhiozzare, a piangere tutte le sue lacrime su quel giubbetto di velluto nero dove Ofelia ne ha versate, e come, il mese scorso.

       Amleto si sente in dovere di picchiettare la sua nuca di baci calmanti e no, e intanto le liscia le ciocche dei capelli.

       Ci vorrebbe la penna di Amleto per ammannirvi il sentimento della bellezza di Kate. Kate è una di quelle apparizioni che v’inchiodano lì per strada, senza pensare di seguirla (tanto a che serve? diciamo, chissà quante occasioni ha, quella) e che in un salotto è guardata non con benevolenza, follia o tenerezza, ma con disinvoltura e distacco (chissà com’è abituata alle teste che si voltano stordite! meglio non allungare la coda, pensiamo). Poi si viene a sapere che vive come tutte le altre, o sposata o sola o qua e là. E ci si meraviglia che non sia la tale famosa, oppressa da drammi internazionali nonostante i suoi venticinque anni e una cert’aria di mostro che ha sempre fatto un buon sonno il giorno prima.

       E Kate, che ha discretamente passeggiato, ha passeggiato tutt’altro che in modo epico. Miseria se ha passeggiato! O cittadine di provincia, paralumi accesi, sudici interrnediari, sbattere di porte! O miseria, o occasioni! Ne ha fatto di strada, e tuttavia è qui che vi guarda; e la bocca atteggiata a una campanula appena schiusa, e i suoi grandi occhi sconosciuti balbettano: «Cosa?… Ah?…» e quanta modestia in quella dolce crocchia sulla sua nuca delicata! – Beh, lasciamo perdere, essa appartiene all’altro sesso, essa è schiava, essa non sa…

       Non sa niente, e a Amleto non resta altro che andare su e giù con la smorfia caritatevole e ghiotta delle sue labbra adolescenziali, lungo la pelle delicatamente risciacquata delle caste spalle scosse dal dispiacere, e rivelarsi creatura, creatura senza parole.

       E no! a quest’ora le praterie naturali sono lontane! Per prima cosa: tabula rasa, e da stasera!

       – Ora Kate, mi direte il perché, di queste lacrime in cui vi ho sorpreso, voi che ancora ieri non mi conoscevate e che stasera trovate naturali i miei baci. Dovete dire.

       – Oh no, mai!

       – Così terribile, dunque? Andiamo, proprio a me…

       E siccome la parola gli muore tra le spalle nude nel su e giù delle sue guance, Kate lo guarda in faccia, abbassa gli occhi, stira le braccia, poi dice con voce strascicata e con un fare annoiato:

       – Bene, ecco! Sarò una disgraziata, ma di animo elevato, voglio che lo si sappia. A quante sublimi eroine ho dato vita sulla scena lo sa solo Dio! Ma quando ho letto il mio ruolo con le scene dell’infanzia e del primo fidanzamento in quella specie di lavoro che avete scritto, oh! credetemi!… Com’è così, il nostro povero destino, pietoso e spietato! Oh! dovete essere unico e incompreso! e mica matto, come quei tipi da stuzzicadenti e speroni d’argento dicono in giro. Ma come dovete avergliele cantate anche! Insomma, ecco, è molto semplice… No! no!

       – Continua, continua, Ofelia.

       – Ecco! credetemi, mentre mi vestivo io mi ripetevo il monologo in chiesa, e di colpo il cuore è scoppiato un’altra volta in lacrime, e mi sono sentita andar giù sul pavimento. Se voi sapeste che cuore grande che ho! Ah! basta con questa vita sfacciata e vuota! Domani mollo tutto, torno a Calais e mi faccio monaca per consacrarmi ai poveri feriti della guerra dei Centanni.

       Amleto, anche se bene educato, non può proprio contenere la sua allegria d’artista. È il suo battesimo di poeta! e questa commediante glielo serve sul piatto del primo teatro di Londra. E eccolo che assilla di spiegazioni la povera Kate, e si fa indicare i passi più insignificanti, per rispecchiarsi con cosmico cuore in quegli occhi esperti che il suo genio va dilatando di gloria.

       – Dunque tu credi che dinnanzi a un pubblico di capitale e sotto le luci, l’effetto sarebbe sbalorditivo? E che per strada mi guarderebbero passare sorpresi del mio portamento triste? E che c’è chi si ucciderebbe di fronte all’enigma della mia vita? O Kate, tu sapessi! Questo dramma, non è niente, l’ho concepito e riscritto in mezzo a ripugnanti preoccupazioni domestiche. Ma ne ho pieni i cassetti lassù, di drammi e di poemi, di fantasmagorie e di metafisiche, inauditi, folgoranti o portatori di morte lenta! Ah! vedrai se ci ameremo, lascio tutto anch’io, partiremo, stanotte sotto questo chiaro di luna tanto terso! Ti leggerò tutto! andremo a vivere a Parigi.

       Kate comincia di nuovo a piangere in silenzio.

       – No, no Amleto, non fa per me; voglio ritirarmi, farmi monaca, curare i feriti della disgraziatissima guerra dei Centanni e pregare per voi.

       Bussano alla porta.

       – Da brava, Kate, asciugate i piacevoli occhi, affrettate la vostra toletta; ritornerò prima che finisca lo spettacolo. Vi amo! vi amo! So che mi darete ragione di questa immensità. – Avanti!

       È il direttore di scena; di sfuggita Amleto gli intima:

       – E, naturalmente, mi raccomando il segreto! Questo dramma non è mio. Ma uno dei tanti del vostro repertorio. Dateci dentro.

       – Eh! continua con voce forte Amleto salendo nella sua stanza, me ne infischio di questa rappresentazione e della sua moralità come del primo amante di Kate! – Il dado è tratto. Ho il mio piano, io. Sono cose che arrivano quando meno te l’aspetti. A me la vita e il resto, e i più che gloriosi pessimismi!

       Amleto si veste pesante; sistema delle acqueforti che ammucchia con dei manoscritti, dell’oro e dei preziosi dentro due cofanetti. Sceglie alcune armi maneggevoli. Poi accende uno scaldino, vi posa sopra un rame da incisione su cui adagia le due statuette di cera dal cuore trafitto infantilmente da un ago, e le due statuette liquefano presto, unendosi teneramente in un magma ripugnante.

       – Me ne infischio anche del trono. Abbruttisce troppo. Fortebraccio di Norvegia mi direbbe che questo è il miglior partito da prendere. E sia; tutto bene. I morti sono morti. Girerò il mondo. E Parigi! Sono certo che recita come un angelo, come un mostro. Faremo sensazione. Avremo dei curiosi nomi di battaglia.

       Per un attimo Amleto cerca un curioso nome di battaglia; macché! già lo prende alla gola la distanza che percorreranno quella notte a cavallo. Già domani, domenica, che le ragazze di Elsinore staranno come sempre a messa e ai vespri, già domani a quest’ora essi saranno lontano, malinconicamente lontano dai bastioni di Elsinore!

       Amleto suona al suo scudiero per gli ultimi preparativi. Nell’attesa si diverte a spruzzare con getti di saliva i quadri appesi ai muri della sua camera, quelle vedute dello Jutland che furono di peso alla sua giovinezza sterile e denutrita.

       Re Fengo e la regina Gheruta volgono intorno un sorriso frollo d’affabilità installandosi nei loro stalli; in sala si prende posto con un frufru incerto da campo di grano maturo che tende l’orecchio per sentire da che parte tirerà il vento. I paggi arretrano verso le porte. Il sipario si apre a destra e a sinistra della scena.

       Da un canto in ombra di una tribuna, Amleto cui nessuno fa mai caso, sta osservando, seduto su un cuscino, la sala e la scena tra le intercolonne della balaustra.

       «Pubblico tempestoso» è lo stereotipo che gli viene alle labbra. – Via, Amleto, che tuttociò vi lasci impenetrabilmente freddo. La sala non ha valore, l’etichetta impedendo di applaudire, e ogni viso si conforma a quelli della coppia reale che non sarà affatto a suo agio, quindi, niente affatto imparziale a partire dal secondo atto.

       La rappresentazione ha inizio, che Amleto conosce a memoria. È assorto nello studio degli effetti scenici, controlla in anticipo la risonanza delle sue parole di fronte a un vero pubblico, rumina dei ritocchi. Finalmente appare Kate e l’opera si fa elettrica.

       – Perbacco! Non ero che uno scolaro! Ecco cosa mi mancava, la prova del palcoscenico! Oh! non ho espresso neanche un quarto di quello che mi cuoce dentro. E lei! com’è decisamente e chimericamente bella, cosi pettinata alla Tito! E non sembra nemmeno accorgersi di dove sta andando! e in nome del Cielo! quei suoi occhi che ora sanno tutto, proprio tutto! ora niente, proprio niente! Giuro che è una creatura forgiata per portare a termine cose di cui si parlerà tra millanni. Noi c’intendiamo. Faremo furore. Ha anche lei, come Ofelia, quell’aria affettata; ma che in lei si traduce in fascino (osservazione da ritenere!). Voglio amarla come la vita. – Oh! in che modo ha detto questo:

              Torna quaggiù

       Torna a vagire tra i miei capelli miei

       Di me, te ne farò bracciali di confiteor,

              Vuoi tu? inanéllati…

Vengo, certo che vengo! E io che credevo di conoscere la Donna! la Donna e la Libertà! mentre le insudiciavo aprioristicamente di luoghi comuni! Tanghero! Callista! – E i due criminali laggiù; parola mia, sono ben disposti verso lo spettacolo. Ancora non hanno capito donde viene un cosi orrendo dramma. Forse mi sono cullato un po’ troppo tra le fioriture dell’immaginazione e, malgrado i tagli, ne restano ancora. Ma aspettiamo la scena del giardino. – To’, non c’è Laerte.

       Ci si alza per l’intervallo. Il re e la regina (i paggi hanno ripreso a reggere lo strascico dei loro mantelli) fanno circolo e dispensano sorrisi affabili e frolli. Si passano in giro filetti di aringa e piccoli corni di bue selvatico schiumanti cervogia.

       Dalla II scena dell’atto seguente, quella della pergola dove il re Gonzago prende ad assopirsi ventilato dalla moglie, il pavido cuore di Fengo capisce! E senza attendere l’entrata di Claudio, ecco che s’accascia svenuto. La regina si erge, molto Erinni alla Paul Delaroche; è un prodigarsi in un repertorio di moine e di bisbigli. Un colpo di alabarda del ciambellano successore di Polonio (felice d’inaugurare così le sue funzioni) fa tirare il sipario sul dramma orrendo.

       Ritto nel suo angolo Amleto balbetta:

       – Musica! Musica! Dunque era vero! E io che ancora non ci credevo!… – Secondo me, in fondo, sono abbastanza puniti così. Scappo; un giorno di più e mi avvelenerebbero come un topo, un lurido topo!

       E infila di slancio le scale di servizio piene di tintinnii di campanelli e di appelli. I camerini sono deserti. Per prima cosa Amleto riprende il suo manoscritto lasciato là, aperto al punto interrotto.

       Kate lo aspettava.

       – Un semplice svenimento. Ti racconterò poi. Ma lascia che t’abbracci! Hai recitato come un angelo. Ora non abbiamo un minuto da perdere… come due topi!

       L’aiuta a venir fuori dai suoi broccati; che buona idea la sua, di tenere sotto il solito vestito! Amleto l’avvolge in un mantello e le calca in testa una berretta.

       – Seguimi.

       Attraversano il parco, facendo svolare gli uccelli assopiti. Amleto fischietta allegramente. Escono da un portoncino; uno scudiero è là che regge due cavalli per le briglie.

       Il tempo d’inserirsi in sella tra quei preziosi cofanetti e eccoli partiti, al trotto, nel più naturale dei modi. (No, no! Non è possibile! E accaduto così in fretta!).

       Vanno per campi, per raggiungere la strada maestra senza passare dalla porta di Elsinore, la grande strada senza la luna che poi laggiù starà cosi bene attraverso pianure e pianure…

       È la strada dove Amleto, qualche ora fa, camminava incrociando i giornalieri del proletariato:

       Fa un tempo dolce di termosifone da paradiso. E la luna recita, non senza successo, l’incantesimo delle notti polari.

       – Kate, avete cenato prima dello spettacolo?

       – Ah! no, figuratevi se avevo voglia di mangiare.

       – È da mezzogiorno che io non tocco cibo. Tra un’ora arriveremo a un ritrovo di caccia dove mangeremo qualcosa. Il custode è il mio balio. Da lui potrai vedere una miniatura di me infante.

       Amleto s’accorge che stanno passando proprio in prossimità del cimitero.

       (Il cimitero…)

       Come punto da chissacché tarantola, scende dal suo cavallo che lega a un albero, un albero malinconico e indifferente.

       – Solo un minuto, Kate. È per la tomba di quel pover’uomo di mio padre che fu assassinato. Ti racconterò. Torno subito; il tempo di cogliere un fiore, un semplice fiore di carta che ci farà da segnalibro quando rileggendo il mio dramma saremo costretti a interromperlo per i baci.

       Procede tra le dure ombre dei cipressi sulle pietre al chiaro di luna, va dritto alla tomba d’Ofelia, della già misteriosa e leggendaria Ofelia. E là, a braccia conserte, attende.

       – Indubbiamente,

       Da costumati

       Al fresco

       Dormono

       I trapassati.

       – Chi va là? Sei tu, Amleto della malora? Cosa vieni a fare in questo luogo?

       – Siete voi, mio caro Laerte, qual buon vento?…

       – Sì, sono io; e se voi non foste un povero demente, irresponsabile a detta delle ultime conquiste della scienza, vi farei scontare qui all’istante sulle loro tombe la morte del mio onorevole padre e quella di mia sorella, giovinetta di rara perfezione!

       – O Laerte, niente può turbarmi. Ma state pur certo che prenderò in considerazione il vostro punto di vista…

       – Giusto cielo, che mancanza di senso morale!

       – Allora, voi credete che sia successo?

       – Basta! Fuori di qui, pazzo, o trascendo! Chi finisce pazzo è segno che è nato ciarlatano.

       – … tua sorella!

       – Ah!

       A questo punto si leva nella notte dal diffuso chiarore spettrale un abbaiare così sovranamente solitario di un cane da pagliaio alla luna, che il cuore dell’ottimo Laerte (il quale, ci penso ahimé troppo tardi, avrebbe meritato piuttosto d’essere l’eroe del nostro racconto) deborda, deborda dal buio anonimato del destino dei suoi trentanni! È troppo! E afferrando con una mano Amleto per la gola, con l’altra gli pianta nel cuore un vero pugnale.

       Il nostro eroe piega le orgogliose ginocchia sul prato e vomita boccate di sangue, e mima la bestia braccata da morte certa, e vuole parlare… stentatamente articola:

       – Ah! Ah! qualis… artifex… pereo!

       Rendendo la sua anima amletica alla natura indifferente.

       Laerte, idiota per troppa umanità, si china, bacia in fronte il povero morto, gli stringe la mano poi, a tentoni nel vuoto, fugge attraverso il recinto e per sempre, a farsi monaco, forse.

       Silenzio e luna… Cimitero e natura…

       – Amleto! Amleto! presto chiama la voce brividosa di Kate; Amleto!…

       La luna allaga ogni cosa dentro un silenzio polare.

       Finalmente Kate viene a vedere.

       Kate vede. E palpa quel cadavere livido di luna e di estinzione.

       – Si è pugnalato, o Cielo!

       Si china su quella tomba e legge:

       OFELIA, FIGLIA DL LORD POLONIO E DI LADY ANNA

              MORTA DI ANNI DICIOTTO.

       E la data d’oggi.

       – Era lei che egli amava! Allora perché portarmi via con amore? Povero eroe… Che fare?

       Si china, lo bacia, lo chiama.

       Amleto, my little Hamlet!

       Ma la morte è la morte, si sa da che c’è vita.

       – Farò ritorno al Castello coi cavalli, ritroverò lo scudiero testimone della nostra partenza, e dirò tutto.

       Riparte allo stesso trotto, voltando le spalle alla luna piena che doveva stare così bene laggiù, sulle pianure, le pianure, alla volta di Parigi e degli splendidi Valois, che ricevono il gran mondo.

       Si seppe tutto, il riprovevole colpo di scena a danno delle personalità, il rapimento, ecc… Si mandò a cercare il cadavere con fiaccole di prima qualità. – O serata tutto sommato storica!

       Ora si dà che Kate fosse l’amante di William.

       – Ah! ah! fece l’uomo, così tu volevi mollare Bibì!

       (Bibì è un’abbreviazione di Billy, diminutivo di William).

       A Kate toccò una bella scarica di botte che non era la prima e non doveva nemmeno essere l’ultima, purtroppo!

       – E tuttavia Kate era così bella che in altri tempi la Grecia le avrebbe alzato degli altari.

       E tutto rientrò nell’ordine.

       Un Amleto di meno; non per questo la razza si è estinta, diciamocelo pure!

 

Jules Joseph Lefebvre, “Ofelia”, 1890

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL MIRACOLO DELLE ROSE

L’altra seminagione di Sensitive si comportò in un modo un poco diverso, infatti i cotiledoni s’abbassarono durante la mattinata fino alle ore 11 e 30, per poi alzarsi; ma dopo mezzogiorno e 10 caddero di nuovo. E il grande movimento ascensionale della serata non ebbe luogo che a partire dalle ore 1 e 22.

Darwin

 

I

     Mai, mai la piccola città termale con la sua Giunta insipiente, delegata da montanari avidi e, malgrado l’abito, nient’affatto operetta, mai ne ebbe sentore.

       Ah! se tutto fosse soltanto operetta!… Se tutto evolvesse a tempo di quel valzer inglese Myosotis allora in voga al Casinò (io afflitto in un angolo, come si può immaginare), valzer in coscienza così malinconico, e giorni, inesorabilmente ultimi bei giorni!… (Oh! quel valzer, magari io ve ne potessi inoculare in due parole il sentimento, prima di lasciarvi entrare in questa storia!)

       O guanti mai rinfrescati dalla benzina! O malinconico e brillante va e vieni di tali esistenze! O sembianze di felicità tanto scusabili! O beltà che invecchieranno tra neri pizzi, vicino al caminetto, incapaci di apprezzare la condotta degli figlioli atletici e gaudenti che allora misero al mondo con una malinconia così casta!…

       Piccola città, piccola città del mio cuore.

       Non è che i malati deambulino intorno alle Fonti, con in mano il bicchiere graduato. Vi si fanno i bagni; acqua a 25 gradi (quattro passi dopo il bagno, poi un pisolo) buona per i nevropatici, e soprattutto per la donna, per le muliebri in quello stato.

       Li vedi che vanno in giro, i bravi nevropatici, tirandosi dietro una gamba che non valzerà neanche più sull’aria tenue e compassata di Myosotis, o spinti dentro una carrozzella imbottita d’usatissimo cuoio; li vedi in pieno concerto lasciare improvvisamente il loro posto al Casinò, in preda a strani rumori di deglutizione automatica; o durante la passeggiata volgersi improvvisamente portando una mano alla nuca come se qualche spiritaccio li avesse colpiti con una rasoiata; li incontri in prossimità del bosco, la faccia scossa da tic inquietanti, seminando tra le fenditure antidiluviane coriandoli di lettere lacerate. Sono i nevropatici, figli di un secolo troppo brillante; te li trovi tra i piedi ovunque.

       Il vecchio sole, amico delle serpi, dei camposanti e delle bambole di cera, calamita qui come altrove qualche tisico, razza tardigrada eppure cara al dilettante.

       Una volta sì che si giocava in quel Casinò! (o epoche brillanti e irresponsabili, il mio cuore falotico, il mio cuore come vi rimpiange!) Ma da quando non vi si gioca più (ombra del principe Canino che avevi sempre al fianco il fedele Leporello, quale imperscrutabile beccamorti ha cura di voi?) le sale dai superflui custodi decorati, in panno blu con bottoni di metallo, si sono proprio spopolate. La sala dove si leggono i giornali, fissi da sempre al loro posto, ospita sempre, tanto per tenervi lontano, qualche nevropatico dalla deglutazione automatica, e a quel rumore Il Tempo vi casca di mano. La vecchia sala da gioco non ha più che delle trottole olandesi, dei biliardi, delle cabine in vetro per lotterie infantili e, negli angoli, degli impianti per giocatori di dama e di scacchi. Un’altra sala serve da rimessa per il piano a coda di un tempo, – o ballate inguaribilmente sentimentali di Chopin, ne avete seppellita ancora una di generazione! mentre la giovinetta che vi suona stamane, ama, è convinta che prima di lei l’amore non sia mai stato provato, prima dell’avvento del suo cuore sensibile e spaiato e s’impietosisce, o ballate, sui vostri esili incompresi. Nessuno solleva più la fodera a fiori stinti che copre questo pianoforte di un tempo; ma i soffi di vento delle belle serate arrischiano strani arpeggi di armonica tra le stalattiti di cristallo del luminario che rischiarò le ben nutrite spalle volteggianti sulle arie galeotte di Offenbach.

       Ah! ma dal terrazzo del galeotto Casinò d’un tempo si gode anche la vista sul sano e fitto tappeto verde di un Tennis ove tutta una gioventù per l’appunto moderna, muscolosa, ben lavata e responsabile della Storia, dà libero corso ai propri animal spirits, a braccia nude e con superbo e responsabile torace, in presenza di Ragazze istruite e libere che si muovono, zoppicando con eleganza nelle loro scarpe piatte, sfidando l’aria aperta e l’Uomo (invece di coltivare l’anima immortale e di pensare alla morte che è, con la malattia, la condizione naturale di ogni cristiano).

       Di là da questo verde tappeto di gioventù per l’appunto moderna, stanno le prime colline e la cappella greca dalle cupole dorate, con le sue cripte dove viene relegato tutto ciò che infossa della famiglia dei principi Stourdza.

       E più sotto, ecco la villa X… ove, debitamente indotta, immusonisce una regina cattolica decaduta che crede sempre di onorare con la sua presenza la località, come un tempo, e presso la quale ci si mette in nota sempre meno.

       Poi le colline, luoghi da cartoline a più colori ritoccate, coi torrioni romantici e coi villini da schizzare.

       E sulla piccola stramba città e sul suo cerchio di colline, il cielo infinito di cui si è orbati, giacché queste effimere femminine non escono mai, in verità, senza che esse frappongano un frivolo ombrello tra sé e Dio.

       Il comitato per i festeggiamenti prospera: notti veneziane, ascensioni di aerostati (l’aeronauta si chiama sempre Karl Securius), caroselli infantili, sedute di spiritismo e di antispiritismo; e sempre al suono della brava orchestra locale cui niente al mondo potrà mai impedire di andare alle Fonti ogni sette e trenta del mattino per il corale d’apertura della giornata, poi dopopranzo sotto le acacie della Passeggiata (oh! gli a solo della piccola arpista che si mette in nero, e si sbianca di cipria, e alza gli occhi al soffitto del Chiosco per farsi rapire da qualche esotico nevropatico dall’anima fremente come la sua arpa!), poi la sera sotto la luce elettrica di rigore (oh! la marcia dell’Aida sulla cornetta a pistone, verso le ineluttabili e chimeriche stelle!…)

       Eccola dunque, in definitiva, questa piccola stazione di lusso, come un ricco apiario in fondo alla valle.

       Coppie vaganti, ricche tutte di chissacché passato, e senza un proletario in giro (oh! se le capitali fossero delle delicate città termali!), nient’altro che subalterni di lusso, valletti, fiaccherai, cuochi in bianco sul limitare delle porte la sera, guidatori d’asini, mandriani di vacche da latte per tisici. E tutte le lingue, e tutte le teste che la civiltà fa belle.

       E al crepuscolo, proprio nel momento della musica quando, tra due sbadigli, vien fatto di alzare gli occhi a guardare l’eterno cerchio delle colline ben tenute e coloro che passeggiano tra sorrisi acuti e pallidi, si prova ma esasperata la sensazione di vivere in una prigione di lusso dal verde cortile, e che si tratti di malati messi lì, patiti di romanzesco e di passato, relegati lontani dalle autorevoli capitali dove si rumina il Progresso.

       Ogni sera si cenava sul terrazzo; un poco più in là, la tavola della principessa T… (una brunona malfatta e millantata) convinta, poveretta, di fare dello spirito in mezzo a dei familiari che ne erano altrettanto convinti, poveretti!; – io guardavo il getto d’acqua zampillare e salire alla diavola verso la stella di Venere appena apparsa all’orizzonte, proprio nel momento in cui, destando echi nella valle, salivano pure i razzi, i razzi d’artificio come getti d’acqua supplementari ma più affini alle stelle, – stelle del resto ineluttabili e chimeriche vuoi per il getto d’acqua e i razzi d’artificio, vuoi per la marcia dell’Aida nostalgicamente fulminata dalla canna pensante della cornetta a pistone. Serate davvero ineffabili, quelle. Voi che c’eravate e che non vi avete attratto, come il magnete la folgore, la fidanzata ignota, non datevi più la pena di cercare perché colei che trovereste sarebbe sicuramente un’altra, una povera altra.

       O piccola città, sei stata il mio solo amore; ma già ho detto troppo. Da quando lei (Lei) è deceduta, io non vi ho più fatto ritorno, né voglio averci più a che fare; non per sentimentalismo (quantunque il sentimentalismo non sia ciò che la gente vanesia crede) ma per un nonsocché che non ha nome in nessuna lingua, allo stesso modo della voce del sangue.

II

       E venne il giorno del Corpus Domini.

       Era dal mattino che le vecchie campane scampanavano.

       Campane mie campane!

       Doglianze divine!…

       Ma le divine campane urtavano troppo contro certi interessi bassamente pubblicitari. Difatti doveva aver luogo la processione, la piazza principale ne era la sosta d’obbligo, e su questa piazza principale tutti gli anni i due alberghi d’Inghilterra e di Francia ridestavano le penose rivalità di Waterloo e del Gran Premio, nella messa in scena delle loro edicole.

       Anche questa volta l’opinione pubblica (vox populi, vox Dei) diede la palma all’albergo d’Inghilterra.

       E di fatto, sul tappeto a bacchette di rame che ricopre i gradini della scalea, oltre l’addobbo classico dei quattro quadri di soggetto religioso con i portafiori da refettorio e i candelabri con tutte le candele accese nel sole di giugno, ecco che questo covo dei figli d’Albione esibiva in cima all’ultimo gradino, tra la confusione dei ventagli di palma, una Santa Teresa (patrona del luogo) il cui isterico policromo rococò catturava malsanamente gli sguardi. Mentre l’albergo di Francia non aveva trovato di meglio che rincarare l’orgia di fiori dell’anno prima.

       È anche vero che al terzo cantone della piazza principale, il palazzo della duchessa H… frapponeva, a salvaguardia del buon tono e a edificazione delle masse, la superiore serenità di un isolato altare provvisorio: in mezzo a le peonie, le piume di pavone e le candele rosa, tra una Sacra Famiglia del Tiepolo e una Maddalena attribuita a Luca Cranach, tre stipetti a reggere il blasone della nobildonna ricamato su uno scudo di felpa amaranto.

       E tuttavia fu con voce unanime che venne proclamata la vittoria dell’Inghilterra. Ma vittoria brutale, vittoria dell’orpello e del paganesimo impressionista, vittoria che più tardi, in un mondo migliore, costerà cara.

       E questo nel momento in cui l’altare provvisorio dell’albergo di Francia, senza voler entrare in merito alla convenienza dei suoi deliziosi canestri di gigli (che non filano, come sa il regno di Francia), stava per essere teatro di una seconda edizione più estetica del Miracolo delle Rose!

       Sì, il leggendario Miracolo delle Rose!

       Agli occhi, se non altro, di colei che ne fu l’eroina, toccante e tipica creatura troppo presto sottratta all’affetto dei suoi cari e al dilettantismo degli amici.

       Sulla piazza principale dove gli alberghi d’Inghilterra e di Francia stanno a evocare le penose rivalità di Waterloo e del Gran Premio e dove avverrà la sosta d’obbligo della processione del Corpus Domini, già sostano al sole gruppi di stranieri in abiti nuovi fiammanti (invece di coltivare la loro anima immortale ecc…) e di brava gente del luogo.

       Un gran bel vedere, nella canicola di giugno; quand’ecco che entra in scena una figura crepuscolare!

       – State comoda così, Ruth?

       – Sì Patrick.

       La giovane malata si stende convenientemente sulla sua sdraio sotto il peristilio d’ingresso dell’albergo e il fratello Patrick l’avvolge ben bene nelle coperte da viaggio, mentre il portiere gallonato sistema con insolente ossequiosità un paravento alla sua sinistra.

       Patrick siede al capezzale della sorella; ha con sé il fazzoletto diafano come un profumo, la bomboniera di catecú all’arancio, il suo ventaglio (un ventaglio, o ironia e malinconico capriccio del momento!), il flacone di muschio naturale (ultimo conforto ai moribondi); ha con sé questi tristi accessori d’uso della sorella, li ha con sé costantemente al servizio dei suoi sguardi, sguardi già reimmessi alle originarie altezze dell’aldilà della vita (la vita, dieta del nulla), sguardi intenti per l’occasione a meditare sullo sfumato di mani, le sue, dalle falangi malinconicamente madreperlacee.

       Mai Ruth era stata sposa o promessa, eppure l’anulare sinistro dalle falangi malinconicamente madreperlacee porta una fede, in verità molto sottile (ancora un mistero).

       Ideale bellezza agonizzante troppo presto rapita al dilettantismo degli amici, nel suo abito grigioferro dalle lunghe pieghe dritte, avvolta in una cappa a mantellina doppia di pelo da dove emerge una stuarda di pizzo bianco chiusa a mo’ di spilla da una vecchia foglia di moneta d’oro con su tre fiori di giglio, coi capelli rosso ambra a cascata sulla fronte finemente intrecciati dietro la nuca pura in un dolce nodo piatto alla Julia Mammea; gli occhi sgomenti, buoni ma selvatici e la piccola bocca golosa eppure esangue, e con quell’aria tardivamente, tardivamente adorabile! Tardivamente adorabile, ché come potrebbe il cereo incarnato avvampare ormai in scenate di gelosia?…

       Ecco che dice, pur di dire qualcosa per il piacere di ascoltarsi:

       – Ah! Patrick, il rumore di questa fiumara mi farà morire…

       È vero, a lato dell’albergo scorre a salti il torrente.

       – Suvvia, Ruth, non mettetevi delle idee in testa…

       Allora, tanto per distendere i nervi, crea lo scompiglio tra le scialbe rose tee (il medico le ha proibito le rose rosse del colore del sangue) disseminandole sullo scozzese a scacchi bianchi e neri, finendo col concludere come sempre ma con una smorfia sottilmente vittimistica che dissipa anche il sospetto della posa:

       – Mi sento fiacca, Patrick, davvero fiacca, come una fiala svuotata…

       Sono fratello e sorella, però di madri diverse (molto diverse), lui le è minore di quattro anni, primaticcio e nobile come un verde patrio abete. Calarono due mesi fa in questo albergo di cui occupano un villino appartato.

       – Fiacca, Patrick, fiacca come una fiala svuotata…

       Troppo pura davvero per vivere, troppo nervosa per vivere alla giornata ma anche troppo adamantina per lasciarsi mordere dall’esistenza, l’inviolabile Ruth che simile a una fiala si svuota evaporando poco a poco, di stazione invernale in stazione invernale, al sole amico dei camposanti, delle putredini e delle bambole di cera vergine…

       L’anno passato fu vista in India, a Darjeeling, ed è là, oh acerba etica! che la sua tisi si pimentò d’allucinazioni. Fu in seguito a un bizzarro suicidio in cui si trovò (lei già così lontana dalla rissa di questo basso mondo cruento) suo malgrado coinvolta nel più segreto di un giardino, durante una notte di luna, ispiratrice perdutamente involontaria e testimone unica. E da quella notte crede di ravvisare sempre, nelle tracce di sangue del suo espettorato, sangue rosso e veemente, lo stesso sangue dell’enigmatico suicida e a quel sangue di cose essenziali e cocenti così radicalmente versato essa delira.

       Tisica, allucinata: quale che sia il fondamento di tutto questo romanzesco, la giovane dama «non ne ha per molto» come ci si permette di canticchiare giù nei servizi, al seminterrato dell’albergo (questo piano è impietoso).

       Così, come in un sogno che per una stagione o due interrompa i suoi viaggi personali e il suo perfezionamento dell’eroe, il buon Patrick segue d’un occhio fatalista le moribonde, moribonde aurore delle etiche macchie sugli zigomi della sorella e le lunule di sangue dentro i suoi fazzoletti. Non vive che curvo sull’orlo dei suoi occhi, acuti a volte come quelli degli uccelli selvatici dell’Atlantico, a volte annebbiati da una pece, curvo sulle vene azzurrine delle sue tempie, azzurrine come gli estivi lampi; e servendola a tavola, portandola a spasso, offrendole ogni mattina un piccolo mazzo di fiori da poco, mostrandole delle immagini colorate, suonando per lei al piano dei piccoli pezzi norvegesi da un album di Kjerulf, o con voce assolutamente naturale leggendole qualcosa.

       Patrick per l’appunto, nell’attesa della processione, e non volendo fare troppo caso a qualche grossolano indiscreto fermo ai piedi della scalinata, sta finendo di leggere una pagina di Serafita alla sorella.

       – … «Per un attimo un’anima ristette, come bianca colomba, posata su quel corpo…»

       – Facile a descriversi! dice Ruth; no, davvero si tratta di una volgare sdolcinatura serafica; è una pagina che risente di Ginevra dov’è stata scritta. E quel messaggero di luce con tanto di spada e di cimiero! Povera, povera Serafita! no, quel Balzac dal collo taurino non poteva esserti fratello.

       È sublime nel suo riserbo, Ruth riprende con una mano a scompigliare le rose tee disseminate sullo scozzese a scacchi bianchi e neri, mentre con l’altra tormenta una strana piastra smaltata che sembra inchiavardare esotericamente l’asessuato petto.

       Strana, davvero strana questa piastra di smalto che essa accarezza sull’asessuato petto! Accostiamoci, di grazia; è uno smalto burinato, di gusto barbaro e futuro, uno splendido occhio gigantesco di coda di pavone sotto una palpebra umana, il tutto incastonato tra pietre tonde esangui. A Parigi, in un giorno di maggio, al Bois, un povero diavolo che Ruth da qualche tempo trovava sempre sul suo cammino, venne fuori da un cespuglio, seguì la sua carrozza e getta ai suoi piedi quella piastra di smalto dicendo con la voce più naturale del mondo: «Per voi sola, e sappiate che il giorno in cui la doveste lasciare, io lascerei questa vita». Ecco che una sera, facendo Ruth il suo ingresso in un salone, un signore svenne a quella vista. Riavutosi, il signore balbettò che non era lei la cagione ma la piastra di smalto che portava sul petto, e pregava che gliela cedesse per la sua collezione. Ruth oppose un rifiuto, raccontò la storia fornendo i ragguagli che sapeva, utili a identificare l’invasato. L’amatore si mise in cerca, fallì, perdette la salute, e un giorno andò da Ruth dove rese a madre natura la sua povera anima d’amatore di cose artificiali.

       Ecco svelato l’arcano! Per una fatalità imperscrutabile Ruth, quest’incantevole agonizzante, passa la vita a seminare suicidi sulla sua via, sulla sua via crucis.

       Prima di venire a rattristare la piccola città termale Ruth operava a Biarritz; e malgrado l’orrore del sangue volle assistere a una corrida a San Sebastiano.

       Ruth e l’imperturbabile fratello avevano preso posto sopra lo stallo dei tori, nel palco del governatore. Ah! come vibrava nell’ampia gala di velo tea, gala drappeggiata alla brava, senza pieghe né volantini, imbastita in fretta col passo ricavato da un sudario, probabilmente per non ferire con un taglio troppo accentuato, con una rifinitura troppo resistente, la friabilità indifesa e fuori delle mode di colei che doveva indossarla!

       È giocoforza riconoscere che il sangue bestiale che colava là, lappato lentamente dalla sabbia dell’arena, rimpiazzava il sangue del suo incubo abituale.

       Educatamente, senza un conato, Ruth tripudiò allo spettacolo di sei rozze sventrate alla cieca, di quattro tori lardellati di ferite e proprio all’ultimo trafitti, e di due banderilleros atterrati, uno anche ferito alla coscia. Era lei a trattenere ogni volta il braccio del governatore presidente, quando l’arena tutta coi suoi mille fazzoletti sventolati gli intimava di sventolare il suo perché cessasse il massacro dei cavalli dei picadores e facesse accorrere i banderilleros.

       – Oh! non ancora ‘signor presidente‘, ancora uno scontro, è il più bello…

       Al quinto toro una scarica d’improperi s’era abbattuta sul troppo debole ‘signor presidente‘. Due cavalli giacevano rantolando teneramente tra le zampe l’uno dell’altro nell’attesa che li si finisse; due altri furono trascinati via perdendo a fiotti le budella. Finalmente, a un segnale, anche i pesanti picadores vestiti di giallo si ritrassero lasciando il toro solo, in un silenzio predisposto, faccia al banderillero a pié fermo coi suoi due dardi ornati di nastri in resta. Sanguinava, il povero toro, delle molte scalfitture messe a segno (vale a dire a fior di pelle, per esasperare senza indebolire). Balza, poi girò stretto ritornando a fiutare e a rivoltare con le sue corte corna le flaccide masse dei due cavalli stesi, e arrestandoglisi davanti a fronte bassa, sentinella fraterna, come cercando di capire. Invano il banderillero in posizione lo chiamava, lo scherniva, gli lanciò pure il suo berretto a nappine di seta nera tra le zampe, il toro si ostinava a cercare frugando la sabbia con zoccolo rabbioso, stranito dai clamori variopinti di quel campo recintato dove non sventrava che dei brocchi con le bende sugli occhi o dei volteggianti brandelli insanguinati.

       Un capador scavalcò la barriera e corse a scaraventar gli sul muso un otre sgonfio, e fu applaudito.

       Quand’ecco che di colpo, dinnanzi ai ventimila ventagli palpitanti in un grande silenzio d’attesa sotto uno splendido cielo scoperto, la bestia tese manifestamente il collo verso Ruth come a individuare in lei sola la causa di tante cattiverie ed emise, lontano dai pascoli nativi, un muggito così sovranamente sventurato (a dir tutto, così geniale) che vi fu un minuto di totale turbamento, uno di quei minuti in cui si fondano le nuove religioni mentre, svenuta e delirante, era portata via, chi? – la bella dama crudele della loggia presidenziale.

       E Ruth che riprendeva il suo ritornello in modo straziante:

       – Il sangue, il sangue… là sull’erba; tutti i profumi d’Arabia…

       Naturalmente, poiché Ruth era passata di là, l’ecatombe di cavalli e di tori doveva quel giorno completarsi in un modo ben curioso! Sì, quel ‘signor presidente‘ che vedeva per la prima volta, senza averla mai prima conosciuta, la nostra giovane e tipica eroina, questo strano individuo con la faccia di febbre gialla e con gli occhiali d’oro, questo creolo assonnato e impassibile di fronte alle richieste e ai sarcasmi di tutta l’arena, doveva suicidarsi la stessa sera indirizzando con qualche cianfrusaglia (ricordi dell’esilio consolare in colonia, esilio che, come diceva, gli aveva lasciato l’anima strana e stanca) una enigmatica e nobile lettera a Ruth che Patrick fortunatamente riuscì a intercettare, desistendo tuttavia dal coglie re il nesso di quell’epidemia di scene sconcertanti.

       E chi mai poté idearle, se non Colui che regna nei cieli?

III

       Le campane avendo preso fiato come esseri umani, ciondolarono ancora un bel po’ in seno all’inconsulta Natura, la quale ignora se è più «naturata» o più «naturante», pur unendo i due estremi.

       Si avvertiva, al rumore, l’incedere della Processione di Colui che regna nei cieli. Si sentiva la fanfara. La processione apparve.

       Venivano primi due giovani cantori in robbia, praticoni e disincantati, l’uno con l’incensiere, l’altro con la gran croce d’argento vecchio.

       Dietro, in uno scalpiccio di gregge, una scuola di ragazzetti, due per due, vestiti a festa dalle povere mamme che s’erano fatte in quattro, tutti col libro dei salmi aperto sul fondo del loro cappello, pigolando straccamente le loro litanie alle acacie a ombrello del Corso. I due in testa, assettati come degli influenti omarini borghesi, inalberavano un ponderoso stendardo di crespo usato di cui altri due, meno influenti, reggevano i fiocchi. A un tratto il padre di uno di costoro, uscendo dalla siepe degli spettatori, avanzò nei ranghi e con un’aria di parrocchiano sistemò la riga impomatata del commovente Eliacin col suo personale spazzolino da barba. Gli ultimi quattro del gregge, i più grandicelli e palliducci nel loro abito nero da comunicandi, offrivano la spalla alle stanghe di una barella dove troneggiava una Pietà, stile rue Saint Sulpice. Quattro cantori con tanto di gibus strinato, riccamente inguantati e con sciarpa sgargiante a croce di Sant’Andrea, sorvegliavano andando e venendo il tutto, pugno sul fianco come degli ufficiali di cerimonia.

       Venivano quindi le bambine, angioletti di zucchero d’orzo, tutte in bianco cinturato d’azzurro, i capelli ricci incoronati di mughetti, le braccia nude a reggere cestini di petali da spargere, che delle borghesi danarose scortavano sotto ombrellini materni.

       Poi delle collegiali non in divisa e in abbigliamento dimesso che con voce incerta elevavano un cantico.

       Poi un accalcarsi di educande in bianco, qualche congregazione di Figlie di Maria, con coroncina e guanti, eccessivamente presentabili, a scorta qua di uno stendardo, là di una barella col suo idolo di cartapesta, vaghe rustiche reliquie.

       Ancora in bianco, una fila raccolta di comunicande dai lunghi veli pieghettati, occhi bassi, mani giunte in punta, mormoranti all’unisono cose che il cuore sa ritenere. (Ah! quando c’è di mezzo il cuore…)

       Ora era la volta della banda, robusta, preceduta dal corpo dei pompieri, una chiassosa banda paesana in finanziera e gibus: ottoni ammaccati al ritorno dai balli di nozze, clarini di minchioni in bisboccia, e la botte della grancassa dalla pelle piena di lividi e con la pagina di musica sozza per l’uso, ficcata in cima allo strumento. Stavano giusto macellando la marzia nuziale dal Sogno di una Notte d’Estate di Mendelssohn.

       Ancora quattro bimbette scelte, con i cestini pieni di petali di rose da spargere e finalmente, su quattro pertiche tenute da uomini importanti, era la volta del baldacchino rosa frangiato d’oro che riparava l’ecclesiastico officiante il quale, pomposo all’aspetto ma annichilito nell’intimo, offriva a quei fedeli di strada il sole leggendario del Santissimo Sacramento.

       E il baldacchino fece sosta dinnanzi all’edicola dell’albergo di Francia!

       O passi attutiti d’unzione edificante, silenzio in pieno giorno al sole, campanella dal suono gracile e sacro come a messa nel momento dell’elevazione, colpi d’incensiere! Di tutta evidenza, il Santo Sacramento era il centro della processione.

       I signori si erano scoperti, numerose signore s’inginocchiavano sul bordo del marciapiede. Non vi fu uno scettico di lusso che osasse prendere la parola.

       O silenzio in pieno giorno al sole, campanella dal suono gracile e sacro come a messa nel momento dell’elevazione, incensieri alzati da nuvole di omaggi! Erano tutti in visibilio.

       Ma per Ruth, la sventurata e tipica eroina che mi sono eletto! questo silenzio affascinante al punto di urlare, questa campanella gracile e implacabile da Giorno del Giudizio non è forse l’arnese delle desolazioni, delle desolazioni delle ingiuste valli d’oltretomba dove l’altro erra, il Suicida, il Suicida per troppo amore, il Suicida senza tante definizioni, col suo buco in fronte?…

       E disgiungendo le mani febbrilmente pie essa s’aggrappa al braccio del fratello e riprende a vagire dal fondo dei suoi sonnambolici limbi:

       – Il sangue, il sangue, là sull’erba!… Tutti i profumi d’Arabia… O Patrick, se solamente sapessi perché. Io piuttosto di un’altra, in questo vasto mondo dove il nostro sesso è in maggioranza?…

       E Patrick che ora potrebbe gridarle davanti a tutti: «Sei tu che hai cominciato!» invece le carezza le mani, le passa il flacone dei sali muschiati e aspetta con dolcezza, senza scandalo, benché la senta svenuta.

       Il sacerdote portatore del Santo Sacramento si volta un attimo con ostentazione verso la ricca giovane malata per gratificarla a distanza, d’un moto di labbra, del suo santo ministero.

       In quello stesso istante fu vista una bimba, spinta da un giovane che radioso e teso restava al suo posto, uscire dai ranghi una bimba rossa di vergogna ma come mossa da un ordine terribile, salire la scalinata e venire a spargere attorno allo sdraio della povera svenuta tutte le rose rosa del suo cesto. (E mancò poco che cadesse ridiscendendo).

       Vi sono nella vita dei minuti assolutamente strazianti, strazianti per ogni classe sociale. Questo non lo fu, ma ve ne sono; e l’eccezione non può che confermare la regola.

       La processione si mosse, ora diretta a incensare col Santo Sacramento la Santa Teresa dell’albergo d’Inghilterra, di un isterico policromo rococò, prima d’incensare a sua volta l’altare di famiglia della duchessa H. In testa avevano ripreso i cantici, e la coda della processione sfilava.

       Sfilava, la coda della processione. Prima i valletti della regina decaduta; poi, su due file, tutto un senato di borghesi col cappello in mano, stigmatizzati in modo indelebile dai loro mestieri: dai macellai apoplettici ai pallidi pasticceri; poi i paesani, curvi, stratificati, dai crani malfatti, col berretto in mano, due o tre sulle grucce, qualcuno solitario che si dice addosso le orazioni; poi le suore di carità, maniche larghe a manicotto e con le cuffie le cui ali palpitano come Spiriti Santi mostruosamente inamidati per volere di una religione dai riti veleggiati via; poi delle dame col parasole, e delle domestiche; poi delle contadine in scialli del tempo che fu, col gozzo cotto dal sole; qua e là a intervalli un uomo o una donna sgranando a gran voce il rosario mentre i vicini mormorano responsori.

       E la processione del Corpus Domini chiudeva, stupidamente tronca, chiudendo su una frotta di timide domestiche.

       E il pubblico non irregimentato filava via verso la lista delle vivande tra la polvere e i petali finiti sotto i piedi.

       Tuttavia, mentre si smonta l’edicola:

       Passata la festa, gabbato lo santo!…

       Ruth si è ridestata e guarda, esulta, una mano sulla piastra di smalto che inchiavarda l’asessuato petto, l’altra che indica in giro:

       – O Patrick, Patrick! Guarda, al posto del sangue vi sono delle rose! Non più sangue ma rose di un sangue trascorso e ormai riscattato! Oh! dammene una che la tocchi…

       – Però, è proprio vero! fa Patrick, col suo tenero istinto e tutto preso dalla sorella, senza riflettere. Oh! sangue davvero tramutato in rose…

       – Allora è salvo, Patrick?

       – Ma sicuro, è salvo.

       La sorella si riempie le mani di petali e vi singhiozza dentro.

       – Poveretto! ora sì che non dovrò più occuparmi del suo stato.

       Il tutto chiuso da un accesso di tosse che è giocoforza annaffiare con l’eterno sciroppo benzoico.

       Perché, grazie alle rose rosa dell’anonima bimbetta così provvidenzialmente sfogliate in loco, Ruth era esorcizzata delle sue allucinazioni e poteva ormai dedicarsi tutta all’unico e non contagiato travaglio della sua tisi, di cui riprese il diario con una penna intinta in un calamaio a fiori blu tipo Delft.

       Inutile dire che non seppe mai che quella stessa sera del Corpus Domini il fratello della bimbetta dal cesto di rose miracolose si suicidava in una camera d’albergo, col pensiero rivolto a lei, avendo a testimone unico dello stato del suo povero cuore Colui che regna nei cieli.

       Ma il Miracolo delle Rose era giunto al suo fine nella gloria trionfante di sangue e di rose! Alleluia!

LOHENGRIN FIGLIO DI PARSIFAL

Quante ore della notte io ho vegliato accanto al caro corpo che dormiva, cercando di capire perché mai tenesse tanto a evadere dalla realtà.

  1. Rimbaud

 

I

       Ah, quanto sono irreparabili, foss’anche solo nell’immaginazione, le sere dei Grandi Sacrifici!…

       Naturalmente, per la degradazione della vestale Elsa sulla piazza del Sagrato di Nostra Signora, in un rintocco di Nox Irae di tutte le campane, era stato scelto il sorgere del Primo Plenilunio implacabile e divino di fronte al mare eterno delle belle sere.

       Su due palchi drappeggiati inviolabilmente di tele di lino stanno contrapposti il Bianco Concilio e la Corporazione delle Vestali; tra le due istituzioni una folla in bisbigli e un uditorio che fa corona, tutti in piedi; occhi blu, verdi, grigi, sgomenti nell’attesa, di fronte al mare sovrumano delle belle sere.

       Fa ancora giorno pieno, non un alito clemente di brezza a contrariare le corte fiamme dei ceri.

       Ma che cosa si prepara?

       Oh, di grazia! come tutto è bianco e barbaro in quest’ora, sulla riva di un mare che sta come dentro un solenne bacile! E come tuttociò è lontano dal mio villaggio! …

       Ecco che nell’incanto dell’orizzonte appare adesso Nostra Signora.

       Infatti, oh, la bella d’oro vecchio luna piena, allucinante, tonda, stuporosa, da palpare! Tanto vicina che la si direbbe un’opera degli uomini della Terra, aerostatica esperienza di tempi nuovi (già, una luna ingenua nella sua dismisura come un pallone mollato!)

       Come sempre tutto ciò dà un brivido.

       E come sempre, le facciate gessose della piazza a balconi addobbati con sudari d’ufficio e il rosone dallo sboccio sepolcrale della Basilica del Silenzio si tingono di un pallore attraente, e in questo incantesimo tutto nuovo le corte fiamme gialle dei ceri ricordano i poveri vecchi gioielli di famiglia.

       Salve Regina dei Gigli!

       Ostia di Lete! Specchio trasfigurante!

       Mecca delle Sterilità polari!

       Oh, Eucaristia tuttopiaghe, Eucaristia malcauterizzata, ostia sul ciborio dell’oceano!

       Ecco che all’orizzonte le onde finora in vena di bonaccia eseguono da lei attratte un va e vieni ninnante, palesemente ninnante, come a implorarla di calare un po’ stasera, tanto per vedere… e allora sì che la coccolerebbero nottetempo!

       Sul che lo scampanìo agonizza.

       E la folla ulula allora (uomini donne vecchi bambini, tutti in un coro di soprano acuti) lo Stabat di Palestrina in versione, però, infinitamente purgata!

       A quel segnale sovracuto la lanterna-uccelliera del Faro della Dea lascia liberi i gabbiani consacrati!

       Simili a uccelli falena svolarono via con pigolii selvaggi verso la Grande Luna roteando al Suo Cospetto; e dopo queste preliminari devozioni, attesero alla solita pesca delle belle sere.

       Tutti a sedere, niveamente ebbri di tali preludi.

       Che silenzio!…

       Si alza il Gran Sacerdote anziano di Selene; in un silenzio polare adempie i tre offertori d’incensiere alla Luna Piena e dice:

       «Davvero, mie sorelle, sere come questa s’addicono alla vostra bellezza!

       «Ecco a noi giunta sulle invalicabili lagune del mare l’Immacolata Concezione (la sola)! Ave, Vergine delle notti, piana di ghiaccio, sia benedetto il nome tuo tra tutte le donne, tu che dai lustro ai seni e fai sgorgare il latte lustrale».

       Le Vestali si alzano, tranne l’ultima fila delle più giovani ancora votate al silenzio, e ripetono l’invocazione, – allora tutte (in tre tempi, ma non senza una certa assai scusabile atteggiata flemma) buttano indietro la pallida casimirra, sciolgono il soggolo di lino e esibiscono al benefico Astro i loro giovani seni, – oh! come altrettante ostie, come altrettante aspiranti lune; – le novizie un po’ rabbrividendo al sentirsi far dure le loro mandorle sotto la carezza del sacro raggio venuto così da lontano attraverso le invalicabili lagune del mare.

       Una di costoro, isolata in prima fila, è rimasta estranea all’incantevole cerimonia, abbassando anche il capo sul suo busto condannato.

       Il Grande Sacerdote, che la teneva d’occhio, riprende con più animo:

       «Mandorle dei seni, suggelli di maternità, poppate gli effluvi dell’Eucaristia che s’alza sul mare e compie il suo giro nei nostri dormitori. Perché voi siete ancora le sue vergini, degne di albergare i suoi Misteri, di custodire i suoi filtri e le magiche formule, degne di benedire le focacce nuziali. Natale! Natale dunque! al Virgineo Faro, alla scolta dei Poli, al Labaro delle Società moderne!».

       E si risiede.

       Tocca al vicario di Diana Artemide ergersi, doricamente drappeggiato, pallido come la statua del Commendatore dei Credenti.

       «Elsa! Elsa! Elsa!» squilla tre volte con le sue canne di perfetto settario.

       La Vestale isolata in prima fila, la donnina dal seno vergognosamente celato, viene avanti a testa bassa sul palco, davvero afflitta.

       «Elsa, Vestale giurata, guardiana dei misteri, dei filtri, delle formule e del frumento delle focacce nuziali, che ne hai fatto della chiave del tuo registro? Ah! ah! il tuo seno conosce altre carezze da quelle così lontane della luna, la tua carne s’è imbevuta d’una scienza ben diversa dal culto; mani profane hanno sciolto la tua cintura e rotto il sigillo delle tue piccole solitudini! Che cosa sai rispondermi, per esempio?».

       Elsa articola angelica: «Credo di essere innocente. Un crudele equivoco!» – (e a bassa voce: «Mio Dio, quanti pettegolezzi!»).

       Con un gesto convenuto il Bianco Concilio fa segno di continuare.

       È il turno del confessore di Ecate che si alza e sgrana l’atto d’accusa.

       «Nella notte del… ecc… ecc…»

       (Insomma nient’altro che dei sospetti, dei miserabili sospetti).

       «…Il solo fatto di essere pubblicamente sospettata rende inadatti al culto. – Vedova Elsa, dimenticate che foste Vestale. Dimenticate, col più terribile per sempre, misteri formule filtri e lievito di focacce! Ora, vedova Elsa, contemplate per l’ultima volta la Dea: se, come il rito vuole, dopo tre intimazioni il vostro fidanzato non si presenterà per assumervi, i vostri begli occhi saranno abbruciati per contatto e con la massima delicatezza compatibile dall’Aerolite del Sacrilegio sceso tra noi al tempo della prima luna dell’Egira, aerolite che riposa, come sapete bene sulle bende nell’ipogeo della Dea, nel più segreto della Basilica del Silenzio. – Popolo! passeremo alle tre intimazioni di rito».

       Era palese che Elsa non si dava neppure la pena di lanciare uno sguardo a caso su quella folla da cui non s’attendeva, dunque, ombra di Cavaliere.

       Le Matrone dalle cuffie a bendelle di Sfinge la fanno scendere dal palco, la spogliano della pallida casimirra e del soggolo di lino e delle perle del culto. Annodano le perle nel soggolo e nella casimirra, e il tutto sprofonda nelle necropoli sottomarine dentro un cofanetto di piombo; successione di simboli impressionante.

       Il che, agli occhi del popolino, fa apparire Elsa fidanzata. – Oh! attraente e promessa, dentro una lunga veste livida costellata dal basso in alto di occhi di piume di pavone (nero blu verde-oro, è risaputo ma vale la pena di ricordarlo), con le spalle nude, con le braccia nella loro angelica nudità, con la vita fermata proprio sotto il giovane seno da una larga cintura blu da dove pende una piuma di pavone con un occhio anche più superbo, è su quel gioiello di occhio centrale che la poverina tiene per pudore le piccole mani dai lunghi mezzoguanti blu incrociate! Nondimeno i suoi occhi restano pur sempre succosi come delle bocche, attesoché la sua bocca semiaperta è venuta a assumere, per la circostanza, tutta la tristezza di uno sguardo.

       Un mormorio palese d’ammirazione corre tra le donne (lo spirito di corpo, ahinoi, le fa come sempre solidali) le quali intonano:

       «Felice! davvero felice colui che la condurrà sotto il suo tetto. Le sue forme sono deliziose; – ci sbagliamo, o non ha ancora diciottanni?».

       Elsa neanche si degna di confermare questo dettaglio irresistibile.

       Ma un araldo avanza tenendo ben alto su una patena, perché il popolo veda, l’aerolite che deve corrodere i begli occhi succosi; suona col suo corno d’avorio ai quattro punti cardinali, poi…

       – Non potreste suonare con maggior convinzione verso l’orizzonte dei mari? gli fa notare Elsa.

       – Ci prende in giro.

       – È per farci perdere del tempo. – All’ordine! – L’accecamento degli occhi!

       – Non voglio avere niente da rimproverarmi, dichiara il Gran Sacerdote: Araldo, ottemperate e date fiato con più convinzione verso l’orizzonte dei mari!

       L’araldo suona a scorno verso il noto orizzonte dei mari! poi grida:

       «Chi vuol prendere in legittima sposa Elsa, vestale da strapazzo, si faccia avanti e lo giuri con voce chiara e distinta!».

       Elsa non batte ciglio, anzi, dà di schiena alla cerimonia come a ispezionare l’ignoto orizzonte dei mari.

       Nessuno ci trova da ridire. – Chissà quante madri, oggi, hanno messo i propri figli sotto chiave! – È pure altera! Mi sa che non si mette bene.

       Le altre due intimazioni restano senza risposta.

       «Aggiudicato!»

       Elsa irrompe: – Passatemi prima uno specchio!

       Un giovane esce dalla folla e porge alla condannata uno specchietto tascabile (poi a bassa voce: «Di’, mi amerai? Vorrai seguirmi dappertutto con occhi folli se…

       – È inutile. Grazie tante»).

       Ecco che si rimira e s’ammira! Invece d’abbandonarsi al compianto della sorte dei suoi occhi, Elsa s’aggiusta la pettinatura, liscia l’arco delle vantate sopracciglia e s’aggiusta ancora i capelli.

       (Che mancanza di senso morale!)

       – Spero che adesso mi si lascerà dire una piccola preghiera alla Luna, nostra padrona, no?

       Senza aspettare che deliberino Elsa s’inginocchia sulla sabbia della riva. E tendendo le piccole mani dai mezzo guanti blu all’orizzonte così incantato dei mari, incomincia a salmodiare:

       «Buon Cavaliere che in una notte fatale e memorabile m’apparisti cavalcando un gran cigno luminoso!

       «Abbandonereste voi la vostra ancella? Fatale Cavaliere voi sapete bene che i miei occhi succosi sotto le vantate sopracciglia e la mia bocca triste sono alla vostra mercé, e che con sguardi folli io vi verrò dietro dappertutto.

       «Ah! ho la carne tanto stordita dalla vostra visione che il mio piccolo cratere (mette la mano sul cuore) ancora mi fa male! Mi sono scoperta un mucchio di tesori; io vi dico che il vostro capriccio, così nobile, sarà tutto il mio pudore.

       «Grazioso Cavaliere, non ho ancora diciottanni. Venite dunque ad assumermi, non vi morderete certo le mani. – Angelus! Angelus! Io sono la Sulamita! Non ho che la probità in eccesso di un fiore».

       Con la mano a schermo sugli occhi si china per un attimo a scrutare il magico orizzonte, poi riprende strascicando le parole:

       «Sì, dico bene, alla vostra mercé, Grazioso Principe! E saprò forgiarvi delle corazze di scorta.

       «Ebbene, ve lo voglio confessare: il gusto di quel che porto addosso vi farà sbocciare ben più di una famelica papilla! – E le lune dei miei gomiti, che mandano lampi come allodole ripiombanti! ah! ah!…

       «Come può l’adorabile Cavaliere tollerare ch’io invecchi cieca e paria in mezzo a questa società borghese? Io sono bella, bella bella! come uno Sguardo incarnato!

       «Certo che vi capisco, e in anticipo! Se vi seguirò? ma dappertutto con occhi folli! Voglio tenermi così perennemente sospesa alla luce della vostra fronte che mi scorderò perfino d’invecchiare, saprò incastonarmi nella vostra scia di luce al punto di divenire un piccolo diamante che l’età non potrà più intaccare!

       «Ah no! no, non sono che una povera creatura del sesso! non farò altro che lavare ogni mattina con le mie lacrime la vostra armatura di cristallo…»

       Poi si volta verso l’Esecutore.

       E a quel cuore tre volte corazzato di bronzo: – Ma se vi dico che sta per arrivare! Me l’ha promesso; almeno vedrete una volta per tutte che cosa io intenda per un bell’uomo. – Ah eccolo! eccolo! eccolo! Ma guardate voi piuttosto!

       I gabbiani ripigolavano spauriti verso le uccelliere dormitorio del Faro.

       Proprio così, o dolce sera…

       Veniva dall’orizzonte sul filo delle onde remissive e nell’incanto della Luna Piena sgranata, mirabilmente e con il collo atteggiato a prua, un luminoso cigno badiale cavalcato da un efebo in raggiante armatura che, sublime d’ignota fiducia, tendeva le braccia diretto alla Riva tribunalizia…

       E ai nostri carnefici di tramutarsi in allocchi accalcati sul litorale, attorno a Elsa sgomenta, la quale riesce appena a articolare: «Ma non spingete così! Non vedete dunque che mi sgualcite l’abito?».

       E gli allocchiti carnefici:

       – Chi sarà mai l’onesto Cavaliere che avanza sui mari, armonioso di coraggio, schietto come le cime, col cece della Fede in fronte? che luminarie! Elsa, senza sottintesi, noi ci felicitiamo con te; avrai dei bei bambini, di sicuro. E come sta in arcione sul serafico uccello, frana di neve fatta cigno! Oh! è perlomeno Endimione in carne e ossa, il giovincello di Diana. E il suono della sua voce, chissà come sarà… provvidenziale!

       Arriva, glissando, ingigantendo, magico, mantenendosi in posa, sicuro di tutto!

       Come dev’essere ricca e raffinata la sua famiglia! Chissà in che ombrosi e incantati recessi sta sorbendo i gelati a quest’ora? È lontano, a tal punto lontano?… Sarà in viaggio da molto, lui?…

       Eccolo! Come è proprio Lui! Quale donna potrebbe avere con lui incompatibilità d’umore?

       Il gentile Cavaliere ha toccato terra sulla riva. Per prima cosa, accarezzando il collo atteggiato a prua del bel cigno taciturno e molto araldico:

       «Addio e tante grazie mio bel cigno quadrigato, riprendi il tuo volo contro l’orizzonte sbarrato dalla Luna Piena, supera le grandinate di stelle, doppia il capo del Sole e rivoga tra gli argini cagliati di miriadi della Via Lattea verso i nostri laghi senza pari del Santo Graal; va, mio piccolo cuore!».

       Il cigno spiega le ali e puntando con un fremito imponente e nuovo fa rotta, veleggia spiegato e presto scompare del tutto di là dalla Luna.

       Arte sublime di bruciarsi le navi alle spalle! Nobile fidanzato!

       Poi che il cigno fu debitamente perduto di vista seguì un silenzio gelido, un tantino provinciale. Il Cavaliere avanza appena intimidito e dice:

       «Non sono affatto Endimione. Arrivo dritto dal Santo Graal. Mio padre è Parsifal, mia madre non l’ho mai conosciuta. Sono Lohengrin, il Cavaliere Errante, il giglio delle future crociate per l’emancipazione della Donna. Nell’attesa, soffrivo troppo in ufficio, da mio padre. (Ho una certa predisposizione all’ipocondria). Sì, vengo per sposare la bella Elsa dal collo di cigno che abita qui tra voi. Dite, dov’è sua madre ch’io le parli…».

       – È orfana come tutte le Vestali, Elsa, proclama l’Araldo.

       – Davvero! Eccola! la riconosco bene. Oh, perché ti nascondevi? Ma che belle piume di pavone! chi te le ha date? Te le spiegherò all’alba! Ma che occhi belli hai! Che figura… armoniosa!

       Caddero insieme ai piedi l’uno dell’altra; insieme ma più o meno fatalmente, purtroppo.

       – Buon Cavaliere, così come sono, compreso il mio passato, così come posso essere io mi prosterno alla vostra mercé. Già lo sapevate, e non mi disdico.

       – Ma no Elsa, tu sei troppo preziosa, (che divino esemplare umano!) alzati!

       – È vero, non sono poi tanto male; ma voi m’insegnerete a conoscermi a fondo, sono così suscettibile di perfezione! Oso darvi anch’io del tu?

       – O mia piccola Virtuosa dei Messali!

       – Lo dite con gusto.

       Allora, che si suoni mortalmente a nozze! campane campane della Città! campane delle belle domeniche sulle province tranquille! Gioia della biancheria pulita come se durante la settimana non ci si fosse sporcati! Allegria decorosa di collegiali a festa sotto la porta grande del duomo! Campane! Campane! Giovani sacre frementi e tutte senza risparmio avvicendantisi in un solo inno avveniristico! Ah! le campane che proprio così suonano: «La tovaglia bianca è già messa. Ecco la focaccia. Dite: questa è la mia carne e questo è il mio sangue!».

       Per tre volte i tre zotici preti elevano gli incensieri zeppi e fumanti al topazio della Luna Piena, proprio per niente turbata da quei curiosi feticismi.

       E si va su in processione al Tempio, verso gli amboni nuziali illuminati e i grandi organi scatenanti gli Osanna! e i Crescite et multiplicamini!

       – Sapete il latino? chiede Elsa.

       – Così così, e voi?

       – Oh! non sono tanto sofistica! Sono una ragazza, punto e basta. Pare che il latino non sia mica poi così pulito nelle parole, l’ho letto in un vecchio almanacco…

       S’inginocchiano davanti alla Tavola Santa drappeggiata di panni virginali, sotto un baldacchino d’orifiamme percosse dalle raffiche di allegria dei grandi organi.

       Sta per cominciare… e il tutto si svolge con un bel spiegamento di sacro…

       Allo sbocciare delle Valve d’oro del Tabernacolo si offre alla vista l’Ostensorio dalla patena a forma di luna, libero dalle fasce, esposto su un manutergio.

       Non hanno bisogno di scambiarsi occhiate in tralice per comunicare perdutamente tra loro:

       – Non so te, ma io soffoco sotto i tuoi occhi, dice Lohengrin.

       E bagna con lacrimoni lustrali i panni della Tavola Santa.

       – Conoscerai la mia leggiadria, dice a bassa voce Elsa convinta. Come! tu batti i denti! Ma non t’impressionare! Di tutto quello che succede qui io non credo a niente; per me la loro luna è come una matrigna, sul serio, uno spelacchiato idolo da vecchi.

       – Sarà per via dell’organo…

       – Ah! sai, vado matta per la musica io! Dalle tribune ululavano i soprano:

       «Orfani innamorati, le praterie della giovinezza attendono i vostri agonici fianchi. Titubando e belando sui ritornelli dei rigogoli notturni dei vostri cuori, flagellandovi con verghe di qualità, ipnotizzatevi in presenza della Luna quando è stagione di semina e carezzatevi poi con tanta fantasia da dar vita, fuor di crisalide, alle vostre farfalle notturne! Perché il resto non è che Desiderio».

       Infine, mentre l’organo dipana la matassa di una fuga sul noto tema: «Si fa tardi» tutti escono, meno processionalmente di come erano entrati, scossi da tante opposte emozioni.

       La notte si annuncia calda. I tetti, il litorale, la città e la campagna dormono gelati di luna; le praterie marine luccicano alla lunare serata di gala; lo spazio è come spolverato da una manna impalpabile di sortilegio.

       L’ostia abbagliante è allo zenit! Verrebbe quasi voglia di staccare le gondole per andare laggiù, sullo specchio d’acqua, a catturare con una rete quell’immagine ferma di ostia così abbagliante!…

       Elargendo questo spettacolo con un gesto, e davanti a questa mostra del bianco, il Concilio grida alla coppia la formula di rito: «Buon prò ragazzi! la tovaglia è apparecchiata».

              Oh! le tovaglie fini

              Dei sacri festini!

 

       Andatevene via gente in baldoria

       A casa tutti gente in allegria.

       Ragazzette in male di marito

 

       Chissà che l’anno prossimo

       Dio non v’abbia esaudito!

       I cori svanirono, e i ragazzi rimasero solo, poverini, nel loro duetto.

II

       Era alle dipendenze del Ministero dei Culti la Villa Nuziale, perduta in un’ansa della costa trasformata a giardino. La si cedeva gratis agli sposi novelli, durante la loro prima settimana; perciò non v’erano levatrici distaccate presso la casa.

       Sembrava prossima, vedendo così vicino il meraviglioso solitario pioppo argentato che ne indicava l’ingresso. Ma in virtù degli ingegnosi tornanti dei sentieri in fiore, il duo impiegava degli interi quarti d’ora prima di avvertire il bisbiglio del meraviglioso pioppo della soglia.

       Quarti d’ora a due, o semplicemente a braccetto, estasiati da teneri sussulti.

       – Caro Cavaliere, il chiaro di luna vi sta proprio d’incanto sulla misteriosa corazza di cristallo!

       – Vero? e come ci sublima tuttociò!…

       – E sulla mia bellezza, che effetto fa il chiaro di luna?

       – Le volute dei vostri capelli scuri non sono meno calde.

       – Ah! il cuore lo è altrettanto. Ma perché non mi date più del tu?

       – È che mi state diventando un personaggio, un personaggio con il quale dovrò fare i conti.

       – Nevvero! Ma… patti chiari amici cari.

       – Quanta magia nelle siepi di questi sentieri scoraggianti! …

       Il chiaro di luna era così intenso che i nidi cinguettarono e i formicai furono presi da frenesie diurne.

       Finalmente apparve il nuziale pioppo sublime con le sue foglie d’argento impalpabile, tutt’un fremito nell’incantesimo polare sullo sfondo diaccio di cielo blu oltre marino!

       Ecco Lohengrin che lascia il braccio della compagna e mette un ginocchio a terra:

       – E credevo di essere Lohengrin, il Giglio fatto uomo! Ma come mi superi pioppo glorioso! nato quaggiù, tu sei vegetante; tu tendi per sottilissime unanimi branchie all’Empireo e il tuo fogliame impalpabile d’argento, sulla soglia di questa villa nuziale, mormora con immutata purezza vedendo le coppie che entrano, che entrano e escono sette giorni dopo, e così se ne vanno.

       – Entriamo! entriamo! è la nostra casa! intona Elsa battendo le mani.

       Si avventurano dunque senza esitare, in preda al disagio e al silenzio, coi piedi spossati dalle tiepide ghiaie, e si affrettano verso qualcosa come dei salti d’acqua là intorno, – ancora attraverso scoranti labirinti di tassi potati a corridoio e per ammassi curiosamente plastici tra i balsamizzanti spruzzi opalini dei cloffete-clop solitari, nel mezzo di rotonde piazzuole a terrazze di marmo concentriche, dove bianchi pavoni ancheggiano nel loro strascico immacolato al chiaro di luna.

       Erano proprio delle cascate quelle che loro sentivano, un circo di cascate ininterrotte attorno a una vasca la cui acqua, profonda un piede appena e translucida, offriva alle magie lunari le miche brillanti del suo fondo di sabbia pura.

       Ah! gettano corazza di cristallo e strascico stellato di begli occhi di pavone: – edenicamente nudi essi entrano in acqua con risatine assurde, per allungarsi fiaccamente al centro, sotto una coperta ideale, poggiando sui gomiti e dicendo qualcosa, tanto per riaversi.

       Si sorvegliano, senza parere.

       Lohengrin, adolescente e spirito superiore, le gambe troppo incrociate, alla turca.

       Elsa stirandosi sotto la luna, magra, duramente sagomata e goffa (Detesto le molli curve che per eccesso franano in anticipo verso la putredine), fianchi superbi, gambe per galoppare in allevamenti sassosi; eretta nel busto e senza vergogna dei suoi seni tanto acerbi che potrebbe nasconderli sotto due piattini.

       Elsa, appoggiata sui gomiti e nell’acqua fino al collo, scioglie i capelli e li sparpaglia a onda intorno al viso abbassato che per un attimo, tra quelle alghe e sullo stelo di un collo, appare come un crudele fiore lacustre.

       Ottenuto l’effetto, si riscuote:

       – Sai, non ne potevo proprio più di quella vita conventuale e dei suoi culti platonici. Per caso, non mi trovi un po’ incartapecorita? Che ne dici, caro, se facessimo una galoppata nei prati?

       – Se vi va.

       – Ah! non mi ami. Me l’aspettavo! Sarebbe stato troppo bello!

       – Sì che ti amo! troppo!…

       Le tende il braccio, in una stretta di mano cordiale; poi per riaversi:

       – Su, raccontami un po’ la tua vita…

       – Ma tesoro, non ho vissuto… fino a questa notte. (Ma sapete che non ho ancora diciottanni?) –  Ho sognato e questo e quello, voi insomma, Grazioso Cavaliere.

       – E naturalmente, sai tutto! Non rispondi? Non ti sono mai passate sotto gli occhi le tavole anatomiche del destino della specie?…

       – Oh! tutta la vita vi pentirete di avermi detto questo!

       – Ma non ho detto niente! Dopotutto alludevo a cose molto naturali e molto piacevoli!

       – Le donne avranno sempre l’ultima parola, sospira Lohengrin guardando nel vuoto.

       Si alza; anche lei si alza, impadronendosi del suo braccio con un gesto gentile ma fermo.

       – Vi bagno forse? fa lei.

       – Oh, non fateci caso.

       Compiono il giro della vasca, arrestandosi dove i salti d’acqua sono più belli, spezzando un attimo con la punta del piede la falda rifrangente che filtra tra le loro dita, furibonda e diaccia. Un pretesto per stringersi addosso al suo tesoro. E lui la calma, non con la banalità di un bacio, ma con qualche parola appropriata.

       Stanchi di combattere si siedono su una proda intensamente erbosa.

       – Adesso come va? chiede lui.

       – Dove?…

       – Senti! non senti in giro il singhiozzo di un uccello notturno?

       – Oh! e questo rumore di germinazioni dappertutto? Che notte!

       «Orsù! mormora tra sé il misterioso cavaliere. Non l’Assoluto, ma il compromesso; niente è troppo, è consentito tutto».

       E s’arrischia a carezzarla con una buona dose di curiosità. Poi alzando la voce fa la seguente riflessione: «Questa Villa Nuziale puzza di fossa comune».

       – Siamo tutti mortali, dice in tono molto conciliante lei.

       Finalmente: «Se rientrassimo?» sospira lui per due.

       La Luna Piena è altissima, tumefatta e colore del polipo.

       Nella notte, ricca in svolgimenti naturali, non s’avverte che lo sconnesso gracidio delle raganelle dei fossi.

       – Guarda! cosa sono quelle costruzioni laggiù? Ahssì! la si direbbe una pietra con dei simboli graffiti e delle regole…

       – Vieni, vieni o prenderai freddo.

       Tornano indietro senza parlare, lui gravato da responsabilità trascendenti, lei di casa.

       Lui pensa:

       Nessun Assoluto,

       Il compromesso;

 

       Niente è di troppo,

       Tutto è permesso.

       Lei pensa:

       È il nido arredato

       Dall’uomo idolatra,

       Le bufere scadute

       Notte e dì accanto al fuoco:

       Proprio niente per poco

       Quasi mai una lite,

       Bella cosa due vite

       Che si sanno arrangiare.

       Entrano. È la villa invasa d’erbe folli. Facciata con garofani a spalliera bendisposti, scalinata di mattoni rosa, balcone maiolicato a fiori, tetto di canne, una banderuola a forma di gatta che miagolerà. Corridoi a eco, troppe scale a chiocciola. Stanze vuote. Nomi e date incisi col diamante sugli specchi. Piani, salita, discesa: aveva ragione lui, tuttociò puzza di fossa comune.

       Che peccato, oh rabbia che fuori sui prati faccia troppo fresco! Lui è già così intirizzito.

       E quei trofei d’orsi neri e quei cuscini stinti in una mansarda la cui finestra a ogiva guarda sulle solitudini del mare e lascia libero accesso al debordante chiaro di luna!

       Insomma, è la vita o una notte di allucinazioni?

       Appoggiato sui gomiti, Lohengrin può scorgere l’ombreggiatura delle ciglia sulla guancia di Elsa, di Elsa calata fino alle spalle dentro fiere pellicce.

       – Che cosa guardate là? fa lei.

       – Rifletto sui prodigi d’organizzazione del corpo umano.

       Un silenzio. Elsa si solleva mettendosi sui gomiti:

       – Oso pronunciarmi?

       – Dite.

       – Posso veramente? Dico a voi, che pure ho visto in sogno, e così buono, così discorsivo! E che m’avete portato qui! Posso, per quella schiettezza che mi ha fatto?

       – L’Eterno femminino! ecco, sorellina, cosa vuol dire far gruppo a sé. E se ci mettessimo noi a organizzare l’Eterno mascolino?

       – Oh, via! ma è cosa fatta…

       – E gli uomini di genio! Perché vi accanite a farli soffrire gli uomini di genio? Da dove viene l’istinto che turba in certi momenti il pensatore?…

       – Se è un istinto, non posso saperlo.

       – So io, è perché sudino il capolavoro che voi li fate particolarmente soffrire! Sapete bene che sono soprattutto gli stravolti capolavori di quegli infelici a ridarvi ogni generazione quella nobiltà che renderà più attraenti le vostre figlie alla generazione successiva.

       – E con questo? se tutti ci guadagnano!…

       – Mio Dio! mio Dio! E sarebbe una semplice schiava secolare priva di malizia?

       Se fosse una spia trascendente? Oh, mentre l’uomo seppellito imputridisce e basta, se la donna partisse in un mondo femminile dove verrebbe ricompensata secondo la qualità e la quantità di tutti coloro che avrà saputo abbindolare quaggiù, facendoli lavorare in nome dell’Ideale! …

       – Uffa! che caldo! …

       – Ma non rispondi ai miei dubbi?

       – Ti giuro che non so niente; ti amo e non ho altro pensiero che di piacerti perché tu mi adotti. Credi che non abbia anch’io i miei dispiaceri, i miei dispiaceri, i miei dispiaceri?

       – Via, non piangere così! non piangere! Sorridimi: più di così! Su, cantami qualcosa.

       – Non conosco che le filastrocche.

       – Ottimo, t’ascolto.

       Elsa tossisce un po’, e canta con un residuo di lacrime nella voce:

       Sansone credeva in Dalilà,

       Giro girotondo, giro girotondo!

       La ragazza più bella del mondo

       Non può dare che quello che ha.

       – Chi ve l’ha insegnata? Non sapreste qualcosa di meno epitalamico?

       – Con la mano sul cuore e con gli occhi al baldacchino Elsa salmodia:

       Tu ci lasci e te ne vai

       Te la batti e ti ritrai.

       Fai le trecce? Le disfai?

       Sono sempre eterni guai.

       – No! non sta mica bene! Elsa, sareste per caso libidinosa?

       – Ignoro il senso di questa parola. – Ah! perché non cantate voi allora?

       Lohengrin declama con un accento perfetto:

       C’era una volta un re di Tule

       Fino alla morte fu fedele,

       Amava un cigno le cui ali

       Bianche sui laghi erano vele,

       Quando la morte sopraggiunse…

       Morire! morire! oh, non voglio morire! Voglio vedere tutta la terra. Voglio sapere la verità sulla Ragazza.

       Lohengrin ha la faccia sul cuscino e singhiozza disperatamente. Elsa si china sulla sua tempia, e sulla tempia che brucia alita con sincerità infernale:

       – Bambino, bambino, bambino, conosci i fasti voluziali? Guarda i confetti dei miei giovani seni, tocca come la mia capigliatura di un nero tenero è sensuale, gusta, gusta un po’ le mie puberose… O rancori uggiversali! esperienze nevricide, notti martiridescenti!… Amami a fuoco lento, inventàriami, massacrami, massacrilégiami!

       – Ma, voi divagate? Mi fareste temere per la vostra…

       – Ah! non indispormi anche tu così! Alla fine, ferisce!

       – Indispongo perché…

       – Cosa? cosa? Se non chiedo che di amarti.

       – Vorrà dire che detesto i vostri fianchi magri! non ammetto che i fianchi larghi, io! Almeno ricordano con franchezza la servitù del figliare che, dopotutto, sta in fondo a queste belle cose.

       – Non dire così! Che ti ho fatto di male?

       – Scusa, scusa! non piangere! Era una cattiveria. Oh! al contrario, ma io vado matto per i fianchi duri e dritti!

       – Dici davvero?

       – Sì, alla follia! Non vedo altro!

       – E allora!

       – Ti spiego; quel che non sopporto in te, è che malgrado i tuoi fianchi stretti, insomma antimaterni, tu ti muovi invece col perpetuo ancheggiamento del mammiferino che ha appena scaricato il qualche chilo del suo parto (cosa c’è da ridere?); sì, proprio quell’ancheggiamento di chi, meravigliata di trovarsi così leggera dopo nove mesi di fatica, va in giro sentendosi più leggera del naturale, come approfittando di quella leggerezza intermedia prima che si ricominci un’altra volta, anzi facendo dell’ancheggiamento liberatorio la propria esca per i prossimi gravatori! Questa io la chiamo leggerezza, aberrazione bell’e buona. Afferri?

       – Sì sì, non ci avevo mai pensato. Ma d’ora innanzi mi sorveglierò, sì tesoro, farò tutto secondo i tuoi dettami.

       – Eh no! nemmeno pensarci: è incurabile. Su, su! ancora delle lacrime! non piangere! non piangere! Lo sai che non posso soffrire le lacrime.

       Lohengrin le passa delicatamente la mano sul collo per calmarla.

       – Che sorpresa la tua mano! dice lei.

       Fa la morta; si ricorda che il primo complimento del sorprendente cavaliere è stato per il suo collo di cigno; ma no, la mano insiste su un punto…

       – Com’è che lo chiamate voi questo?

       – Non so; il pomo d’Adamo.

       – Come?

       – Il pomo d’Adamo.

       – E questo non vi ricorda niente?

       – Parola mia no.

       – E v…va dunque! A me ricorda i giorni peggiori della nostra storia! – Oh! non piangere! non piangere! Chiuso, ti dico che ho chiuso.

       – Sul serio, tesoro?

       – Ecco, lasciami fare un riposino, un quarto d’ora tutto per me, nel silenzio della notte, – poi ti prometto che in nome di questa irresistibile notte mi farò un dovere di adorarti ben bene.

       – Come vorrai, tesoro.

       Lohengrin, il sorprendente cavaliere, le volta la schiena dopodiché, impossessandosi più che follemente del suo cuscino e afferrandolo perdutamente tra le braccia in una stretta maldestra contro il petto e la guancia, prende a vagirgli, come un bimbo, un bimbo incurabile, vi dico!

       «O mio buon buon buon cuscino, tenero e bianco come Elsa! O mia piccola Elsa, bebè incosciente che ti meravigli dei miei abissi, bebè succulento, nubile da sgranocchiare, misirizzi, creatura dagli organi divini, sei un fenomeno! Ah! voglio amarti a tentoni, trovare il cammino della tua anima!…

       «Dove sei? dove sei? fa che ti adori da ogni parte! O mio buon cuscino, non ti resterà il più piccolo spazio fresco (dopo una giornata così faticosa) per la mia fronte. Mio buon cuscino bianco e puro come un cigno, mi senti?

       «Mio cigno, mio cigno mi senti! Oh, non c’è dubbio che sei proprio tu, pallido e muto! sei tu!

       «Ecco, m’aggrappo alla prua del tuo collo insommergibile, portami via di là dai mari immacolati, rapiscimi in spirali, povero Ganimede, di là dalle prode della Via Lattea, oltre le grandinate di stelle e l’infido capo del Sole, verso il Santo Graal dove mio padre Parsifal prepara un progetto di riscatto per la nostra sorellina umana così terra terra!…

       «Tu sai tutto questo, mio buono, mio tenero cigno! Ci sono, m’afferro bene, trattengo il respiro! – Addio, voi!…».

       Oh, la finestra della sala nuziale scoppiò follemente dentro un ciclone di magia lunare! e ecco che il cuscino mutato in cigno spiegò le sue ali imperiose e cavalcato dal giovane Lohengrin s’alzò in spirali siderali puntando verso la libertà meditativa, puntando, sopra le desolate lagune del mare, oh ben di là dal mare! verso le altitudini della Metafisica dell’Amore, i cui ghiacciai a specchio nessun alito di ragazza potranno mai appannare per tracciarvi con un dito il proprio nome e la data!…

       È da allora che in notti come questa i poeti celebrano a freddo e inviolabilmente dietro la loro fronte una certa festicciola dell’Assunzione.

SALOMÉ

Nascere è uscire: morire è rientrare.

(Proverbi del regno di Annam raccolti dal padre Fourdain delle Missioni Straniere).

I

       Erano passate giusto quel giorno duemila canicole da che una semplice rivoluzione concertata dai Mandarini di Palazzo aveva portato il primo Tetrarca, un infimo proconsole romano, sul trono delle Bianche Isole Esoteriche – trono da quel dì ereditato per selezione controllata e isole da quel dì perdute alla storia, salvo tuttavia restando quell’unico titolo di Tetrarca, inviolabile alla stessa stregua di Monarca, oltre i sette simbolismi di stato propri della desinenza tetra in opposizione alla desinenza monos.

       In tre blocchi, su dei piloni tozzi e nudi, con cortili interni gallerie sepolcreti, col vantato giardino pensile dalle giungle verzicanti agli atlantici venti e con un osservatorio di vedetta a duecento metri su di casa nel cielo con cento rampe di cinocefali e sfingi il tetrarchico palazzo altro non era che un monolito sgrezzato, ricavato dal ventre, ben messo, insomma tirato a lustro dentro un monte di nero basalto screziato di bianco, con in più l’aggetto di un rumoroso molo pedonale a doppia fila di pioppi incassati color viola-gran lutto, proteso verso la inquieta solitudine marina, fino allo scoglio imperituro su cui, avorica spugna, s’esibiva alle nottambule giunche un faro d’opera buffa.

       Titanica funerea mole venata di livido! facciate d’un nero eburneo riverberanti misticamente l’odierno sole di luglio: sole sul mare a tal punto riverberato di nero che le civette del pensile giardino, dall’alto dei loro polverosi pini, osano contemplarlo senza danno!…

       La galera che ancora ieri portava i due principi intrusi, presunti figlio e nipote di un certo Satrapo del Nord, si culla sugli ormeggi ai piedi del molo, tra i commenti di figure oziose ma schiette nel gestire, al modo indigeno.

       Così nel ristagno di mezzodì che si perpetua, legittimo dato che la festa non sarebbe esplosa che alle tre, il palazzo poltriva non riuscendo a scrollarsi di dosso la sua siesta.

       Dalla corte, là dove convergono le grondaie, veniva uno sbellicarsi di gente al seguito dei Principi del Nord e a servizio del Tetrarca, un ridere senza capirsi tra i giochi di piastrelle e gli scambi di tabacco. C’è chi mostra ai colleghi stranieri come vanno strigliati gli elefanti bianchi…

       – Ma da noi non ci sono elefanti bianchi, cercavano di far capire.

       E i palafrenieri giù a toccarsi, come a scongiurare propositi empi. Dopodiché restavano allocchiti davanti ai pavoni bighellonanti in cerchio, con la ruota sgargiante al sole, sopra il getto d’acqua; ma si divertivano, ne abusavano anche! ai loro barbari appelli rispondevano echi gutturali a rimbalzo nel caos di più piani di rocce.

       Tutti costoro rientrarono in fretta per accudire alle proprie faccende quando sulla terrazza centrale apparve il Tetrarca Smeraldo-Archetipas sfilandosi i guanti al sole, Aedo universale allo Zenit, Lampiride dell’Empireo, ecc…

       Oh, il Tetrarca sulla terrazza, cariatide di dinastie!

       Dietro a lui la città, in un brusìo di festa, che sciorina le sue ricche innaffiature; e più in là, dopo i bastioni nani smaltati di fiorellini gialli, come si stendeva lieta la pianura! Strade graziose con i quartieri dalle selci rifilate, scacchiere dalle svariate colture. Davanti a lui il mare, il mare sempre nuovo e venerabile, il Mare, dato che non c’è modo di chiamarlo altrimenti.

       Ora il silenzio era unicamente punteggiato dall’abbaiare festoso e chiaro, laggiù, dei cani che i bimbi, tra il brillìo dei nudi corpi nelle miche delle sabbie arse, eccitavano con esotici fischi contro la spiegata curva della linea del mare, sul cui pelo dell’acqua gli stessi giocavano poco fa a rimbalzello con delle frecce di scarto.

       Così, poggiato sui gomiti, godendosi il fresco degli invisibili ruscelletti, tra le clemàtidi della terrazza, il Tetrarca buttava svogliato in volute senz’arte, tristi e sconnesse, il fumo della sua dose meridiana di narghilé. Ieri, per un istante, all’arrivo sospetto di un messaggero che annunciava i Principi del Nord, il suo destino troppo pago su queste isole troppo paghe aveva vacillato tra i terrori strettamente domestici e un dilettantismo assoluto che troverà il suo conforto del tutto per tutto nella rovina.

       Perché era proprio della razza di quei figli del Nord, mangiatori di carne dalle facce non rasate, l’infausto Johanaan piombato qui un bel mattino, con tanto di occhiali e una barbaccia rossa, a commentare proprio nella lingua del paese certi opuscoletti che distribuiva gratis, ma propagandandoli in un modo così sedizioso che per poco il popolo non l’aveva lapidato, e che adesso se ne stava a cogitare in fondo all’unica segreta del tetrarchico palazzo.

       Che dopo tanti secoli di esoterismo senza storia, il ventesimo centenario della dinastia degli Smeraldo-Archetipas dovesse sorbirsi, mazzo di luminarie, una guerra dell’altro mondo? Johanaan aveva parlato della sua patria come di un paese intristito dall’indigenza, affamato dell’altrui bene, dedito alla guerra come a una industria nazionale. Che i due principi fossero venuti a reclamare quel tizio, un signore di genio, dopotutto, e loro suddito, a complicare il fatto pretestuoso esibendo un nordico diritto delle genti?…

       Ancora fortunato! poteva ringraziare le misteriose intercessioni di sua figlia Salomé se il boia non era stato distolto dalla tradizionale sinecura onoraria e spedito a Johanaan col sacro kris…

       Ma, un ben misero allarme! Il viaggio dei due Principi non era che una circumnavigazione, in cerca di colonie vagamente occupate, con scalo strada facendo, per curiosità, alle Isole Bianche. È proprio in quest’angolo di mondo rischiava la corda il loro celebre Johanaan? Eccoli avidi di particolari sulle tribolazioni di quel povero diavolo già così poco profeta in patria.

       Così il Tetrarca poppava la sua dose meridiana di narghilé, con animo svuotato e con umore malfermo come sempre, del resto, sul mezzodì – più malfermo oggi tra i rumori crescenti della festa nazionale, i petardi i cori gli sbandieramenti e le limonate…

       L’indomani, la galera di quei signori si sarebbe dileguata all’orizzonte; certo infinito, ma di là dal quale vivevano sotto lo stesso sole numerosi altri popoli.

       Curvo sulle giulebbanti clemàtidi della balaustra di maiolica, intento a sbriciolare una focaccia di fior di farina per i pesci dei vivai sottostanti, Smeraldo-Archetipas rimuginava il fallimento – oh, esigua rendita! – delle sue facoltà in pensione, la tarda vecchiaia indubbiamente frustrando ogni impulso galvanico, vuoi artistico o meditativo o gemellare o industriale.

       E pensare che il giorno della sua nascita un grosso temporale s’era abbattuto proprio sul nero dinastico palazzo, e che da gente degna di fede era stato visto un lampo iscrivere l’alfa e l’omega! Giorni e giorni sciupati sospirando su quel mistico trillo! Non s’era mai manifestato proprio niente. E poi, alfa e omega possono voler dire tante cose…

       Per finire, da quasi due mesi aveva rinunciato ai temi fatui, esortandosi a ritrovare quella fiammella di rassegnazione al nulla dei suoi ascetici ventanni, per imporsi con applicazione la regola dei pellegrinaggi quotidiani alla necropoli avita, così fresca, d’altronde, l’estate. – L’inverno era alle porte, con le cerimonie del culto della Neve, con l’investitura del nipote. E gli restava sempre Salomé, la sua bambina, che non voleva sentir parlare delle dolcezze dell’imene!

       La mano di Smeraldo-Archetipas era già sul gong, per la richiesta di altre focacce destinate ai pesci di lusso al luglio, quando alle sue spalle risuonò sulla pietra la verga di bronzo del Profitente d’inezie. I Principi del Nord erano rientrati dalla visita in città; attendevano il Tetrarca nella sala dei Mandarini di Palazzo.

II

       Detti Principi del Nord, bardati, impomatati, inguantati, gallonati, con tanto di barba e di riga all’occipite (le ciocche riportate sulle tempie per dare rilievo ai profili di bronzo) erano in attesa, una mano con l’elmo poggiata sulla coscia destra, l’altra a tormentare l’elsa della sciabola, stando in bilancia come stalloni che fiutano la polvere. S’intrattenevano coi notabili: il grande Mandarino, il Gran Maestro delle Biblioteche, l’Arbiter Elegantiarum, il Conservatore dei Simboli, il Rettore delle Selezioni e dei Ginecei, il Pope delle Nevi e l’Intendente della Morte, tra due ranghi di scribi allampanati e svelti, con la cannuccia al fianco e il calamaio sul cuore.

       Le loro altezze si congratularono col Tetrarca, complimentandosi del buon vento che… in un giorno così glorioso… in queste isole – chiudendo con un elogio alla metropoli, la cui Basilica Bianca, dove avevano udito un Toedium laudamus sulla pianola dei Sette Dolori, e il Cimitero degli Animali e delle Cose non erano tra le curiosità di minor conto.

       Fu servito uno spuntino. Ma dato che i Principi si facevano scrupolo di toccare la carne presso degli ospiti tanto ortodossi in fatto di vegetarianismo e ittiofagia, la tavola così delicatamente disposta, tra i cristalli, sembrava dipinta, coi mazzi di carciofi callipigi natanti in baccelli di ferro bivalve e puntuti, con gli asparagi sui graticci rosa di giunco, con le anguille grigio-perla, e i dolci di datteri, la gamma delle gelatine di frutta, la varietà di vini dolci.

       Allora il Tetrarca e il suo seguito, con in testa il Profitente d’inezie, si sentirono in dovere di fare agli ospiti gli onori di palazzo, del titanico funereo palazzo venato di livido.

       E per incominciare, una visita al panorama delle isole dall’alto dell’osservatorio, per poi scendere di piano in piano attraverso il parco il serraglio e l’acquario, giù giù fino alle cripte.

       Il corteo attraversò lesto, in punta di piedi, le stanze di Salomé, arroccate – è il caso di dire – pneumaticamente lassù tra un continuo sbattere di porte e un dileguare di due tre torsi di negre dalle scapole di bronzo lucenti. Giusto in tempo per notare al centro di una sala rivestita di maioliche (oh, così gialle!) una vasca d’avorio lasciata là con una spugna bianca di dimensioni ragguardevoli, i rasi inzuppati e un paio di babbucce rosa (oh, così rosa!). Poi una libreria, poi una stanza ingombra di materiali metalloterapici, una scala a chiocciola e una piattaforma per una boccata d’aria dall’alto – ah! giusto in tempo, prima che sparisse una ragazza musicalmente avvolta dentro una mussola d’impalpabile giunchiglia a pallini neri, per vederla scivolare via nel vuoto, con un gioco di pulegge, verso altri piani!…

       Ai Principi, che l’intrusione già prosternava in galanti salamelecchi, fu di monito quel cerchio d’occhi stupefatti che stava a significare: «Bene bene, sia chiaro che di tuttociò che qui accade, niente ci riguarda».

       Si riprese a circolare all’aperto, tra frasi leggere di ammirazione soffocata, intorno a questa cupola d’osservatorio che fa da tetto a un grande equatoriale di diciotto metri, cupola mobile, pittata a affresco impermeabile, e la cui massa di centomila chili sospesa su quattordici perni d’acciaio nella sua slitta di cloruro di magnesio virava, a quanto pare, in due minuti sotto la lieve pressione della mano di Salomé.

       A proposito, se a questi impagabili esotici gli prendesse l’uzzolo di buttarci di sotto? pensarono unibrividendo i due Principi. Ma in due, nella loro uniforme attillata, erano dieci volte più robusti di quella dozzina di pallidoni depilati, con le dita cariche di anelli, sacerdotalmente impediti nei loro broccati rilucenti di lamé. E si divertirono a riconoscere laggiù al porto la loro galera, simile a un coleottero dalla teca di lamiera forbita.

       E quelli intanto a snocciolargli le isole, arcipelago di chiostri naturali, ognuna con la sua casta, ecc…

       Ridiscesero, passando per una sala dei Profumi dove l’Arbiter Elegantiarum prese nota dei doni che le loro altezze si sarebbero degnate di accogliere; poi additando i pasticci segreti di Salomé: belletti senza carbonato di piombo, ciprie senza biacca né bismuto, corroboranti senza cantaride, acque lustrali senza protocloruro di mercurio, depilatori senza solfuro di arsenico, latte senza sublimato corrosivo né idrossido di piombo, tinture vegetali purissime senza nitrato d’argento, iposolfito di soda, solfato di rame, solfuro di sodio, cianuro di potassio, acetato di piombo (possibile?) e due damigiane d’essenze di fiori marzolino – autunnali.

       In fondo a un corridoio umido, interminabile, che puzza d’agguato, il Profitente aprì una porta resa verde dal muschio e dalle fungosità come un vecchio scrigno: e il sovrano silenzio del vantato giardino pensile colse tutti di sorpresa – ah! giusto in tempo per veder sparire dietro la curva di un sentiero il fru-fru di una figurina ermeticamente avvolta dentro una mussola di impalpabile giunchiglia a pallini neri, scortata da molossi e da veltri i cui latrati saltellanti, veri singhiozzi di fedeltà, finirono col perdersi in lontani echi.

       Oh! solitudine chilometricamente fonda d’un verde severo, in una eco di labirintici recessi, annaffiata da macchie di luce, di null’altro addobbata che di legioni d’erti pini, coi nudi tronchi rosa-salmone, espansi solo lassù a ventaglio in polverose ombrelle orizzontali… Le barre di luce si posavano tra quei tronchi con la stessa tranquilla dolcezza che esse assumono tra le colonne di una cappella claustrale dalle finestrelle grigliate. Una brezza marina spirava tra i fusti eccelsi, col rombo bizzarro di un direttissimo che si perda nella notte. Poi il silenzio delle altezze, che è di casa, s’installava nuovamente. Prossimo, oh! in qualche luogo, un usignolo si sgolava in raffinati gorgheggi; lontano gli rispondeva un altro, come in famiglia, dentro una voliera secolarmente dinastica. Era un inoltrarsi computando lo spessore di quel suolo artificiale, sul veltro delle foglie morte e degli strati di aghi di mille epoche trascorse, così accogliente per le radici di quei pini patriarcali! E ancora: abissi di prati, di pendii erbosi evocanti festività faunesche, di acque morte dove s’impegolano noiati annosi cigni adorni d’orecchini troppo pesanti per dei colli affusolati; e svariati decameroni di statue policrome, tirate giù dai basamenti, in pose di una nobiltà sorprendente.

       Per finire, il recinto delle gazzelle faceva da trapasso, del resto senz’altra pretesa, tra i pomari e il Serraglio e l’Acquario.

       Le belve, al passaggio, neanche alzarono le palpebre; gli elefanti si dondolavano in un robusto frusciare d’intonaco, ma il loro pensiero era altrove; le giraffe, pur nel garbo del manto caffellatte, parvero eccessive, ostinandosi a guardare più su della corte vivace; le scimmie non si curarono d’interrompere le scene d’intimità del loro falansterio; le uccelliere scintillavano assordanti; i serpenti, da una settimana, non smettevano più di cambiar pelle; e le scuderie apparivano vuote proprio delle bestie più pregiate: stalloni cavalle e zebre dati in prestito alla municipalità per una cavalcata in quel giorno.

       L’Acquario! Ah! L’Acquario, per esempio! Fermiamoci qui. Come volteggia in silenzio…

       Labirinto: a destra di grotte a forma d’ambulacro, a sinistra di paratie con squarci vitrei e luminosi per le nazioni sottomarine.

       Lande coi dolmen incrostati di ornamenti gommosi, circhi a gradoni basaltici dove i granchi in un ottuso brancicante buonumore postprandiale s’intralciano in coppia con occhietti ridevoli tra le chele cuculiatorie…

       Pianure e pianure di una rena così fine che talvolta si leva sotto i colpi di coda d’un pesce piatto venuto da chissaddove, in un garrire libertario d’orifiamma, e che è visto passare e che ci lascia e se ne va, tra uno spiare qua e là d’occhiacci a fior di sabbia, e in ciò sta proprio tutto il suo quotidiano.

       O una desolazione di steppe con al centro un solo albero, folgorato, ossificato, dove a grappoli vibratili saprofitano gli ippocampi…

       E sfilate di muschi, in un cavalcavia di ponti naturali, dove ruminano in un ribollio fangoso le gualdrappe embricate dei limuli dalla coda di topo, e qualcuno si dibatte capovolto, così, di suo gusto, tanto per strigliarsi…

       Sotto caotici archi di trionfo in rovina le aguglie vanno in giro come frivoli nastri; e migrano alla buona gl’ispidi nucleobranchi dalle ciglia a ciuffo intorno a una matrice che si fa vento nella monotonia dei lunghi viaggi…

       E campi di spugne, spugne dalle parcelle di polmone; coltivazioni di tartufi dal velluto arancione; e tutto un cimitero di molluschi madreperlacei; e queste piantagioni di asparagi fittili e turgescenti nell’alcool del Silenzio…

       E a perdita d’occhi distese, distese smaltate di bianche attinie, di cipolle grasse a puntino, di bulbi dalla mucosa viola, di lembi di trippe finiti da qualche parte ma in grado di rifarsi per davvero un’esistenza, di moncherini le cui antenne ammiccano al corallo dirimpettaio, di mille verruche senza senso; un’intera flora fetale e claustrale e vibratile che agita il sogno imperituro di poter un giorno sussurrarsi mutui rallegramenti sullo stato attuale delle cose…

       Oh! ancora questo altopiano, cui s’abbarbica a ventosa la Scolta di un polpo, grasso e glabro minotauro di tutta una regione….

       Prima di uscire, il Pope delle Nevi si gira verso il corteo che ristà e parla, quasi recitasse un’antica lezione:

       «Né giorno né notte, Signori, né inverno né primavera, né estate né autunno, e altre simili fanfaluche. Amare, sognare, mai mutare di posto, al riparo da cecità imperturbabili. O mondo di soddisfatti, voi state in una beatitudine cieca e silenziosa, mentre noi, noi ci inaridiamo in smanie sopraterrestri. Perché mai le antenne dei nostri sensi, di noi, non sono limitate dal Cieco e dall’Opaco e dal Silenzio, invece di fiutare di là dal nostro naso? Perché non sappiamo incrostarci nel nostro cantuccio e lì fermentare la sbronza del nostro piccolo Io?

       «Tuttavia, o villeggiature sottomarine, pur con le nostre smanie sopraterrestri, noi siamo a conoscenza di due leccornie che vi valgono: il viso della troppo amata che sul guanciale si sigilla, ciocche piatte agglutinate nei sudori di poco fa, bocca ferita che rivela il pallore dei denti in un raggio d’acquario della Luna (oh, non cogliete, non cogliete!) – e la Luna stessa, questo giallo girasole, schiacciato, inaridito a forza d’agnosticismo (oh! cercate, cercate di cogliere!)».

       Così per l’Acquario; ma quei principi stranieri furono in grado di capire?

       Rapidi e discreti, tutti infilarono il corridoio centrale dei Ginecei, affrescati da scene callipediche, di una mestizie fradicia d’aromi femminili; non si sentiva che il gorgoglio di un gioco d’acqua – a sinistra? a destra? – abbeverante con la sua freschezza la rete di una melopea indicibilmente schiava, sterile e sventurata.

       L’ignoranza dei riti locali potendo esporli a qualche sinistra topica, i Principi attraversarono d’un sol passo discreto la necropoli tetrarchica, una doppia fila di armadi a muro, celati da ritratti a figura intera, che racchiudono fiale e quantità di realistici oggetti devoti, naturalmente degni di devozione solo per la famiglia.

       Ma era chiaro che desiderassero soprattutto rivedere il loro vecchio amico Johanaan!

       Seguirono dunque un funzionario dalla chiave ricamata di traverso lungo il filo della schiena, il quale arrestandosi in fondo a un budello che puzzava di salnitro, indicò una grata che per mezzo di un praticabile fece abbassare ad altezza d’appoggio; fatti più prossimi, riuscirono a distinguere in fondo a una cella l’infelice Europeo che si sollevava, distolto dal suo stare bocconi, col naso tuffato in un disordine di scartafacci.

       Sentendosi augurare un duplice cordiale bongiorno nella lingua materna, Johanaan s’era messo ritto, aggiustandosi i grossi occhiali rabberciati con dello spago.

       Oh! mio Dio, i suoi principi qui! – Seratacce d’inverno, con gli zoccoli imbevuti di fanghiglia, in prima fila tra poveri diavoli, reduci dalla loro giornata salariata, che si attardano un attimo là, trattenuti da tirannici poliziotti a cavallo, per osservarli scendere impennacchiati dalle carrozze di gala e salire tra due file di sciabole sguainate lo scalone di palazzo, di quel palazzo dalle finestre ‘a giorno‘ a cui andandosene egli mostrava il pugno mormorando ogni volta che «i tempi» erano vicini! – E ora, eccoli arrivati, questi tempi! ecco acquisita al paese la rivoluzione promessa! e dopo dio, ecco il suo povero vecchio profeta Johanaan! e questo intervento del re in persona, questa intrepida lontana spedizione dei suoi Principi venuti a liberarlo, senza alcun dubbio una consacrazione commovente voluta dai popoli per sigillare, grazie a lui, l’avvento della Pasqua Universale!

       Per prima cosa, automaticamente si prosternò come d’uso dalle sue parti, sforzandosi di trovare una frase memorabile, storica, certo fraterna, degna anche…

       La parola gli fu illico soffocata dal nipote del Satrapo del Nord, un soldataccio dalla calvizie apoplettica che farfugliava a sproposito, imitando Napoleone, la sua esecrazione per «gli ideologhi»: – «Ah! ah! eccolo l’ideologo, lo scribacchino, il riformato di leva, il bastardo di Rousseau! Sei venuto fin qui per farti impiccare, gazzettiere declassato! Un bel sollievo! Che la tua zazzera tignosa vada presto a raggiungere nel cesto della ghigliottina quelle dei tuoi confratelli del Calza-Becchi! sì, la congiura dei Calza-Becchi, teste ancora fresche…».

       Oh! bruti, inestirpabili bruti! dunque il complotto del Calza-Becchi era fallito! i suoi fratelli, assassinati! e nessuno in grado di fornirgli particolari pietosi. Finito, finito, non resta che crepare come i fratelli sotto il Tallone Costituito. Lo sventurato pubblicista si chiuse risoluto in un silenzio, nell’attesa che, una volta sfollato tutto quel bel mondo, nel suo cantuccio morte lo colga. Due lacrimoni bianchi gli colarono sotto gli occhiali lungo le guance smunte verso la barba rada. – Di colpo fu visto ergersi sui piedi scalzi, le mani tese a un’apparizione, e singhiozzare gli epiteti più dolci della sua lingua madre. Tutti si volsero, – ah! giusto in tempo per vedere, in un tinnir di chiavi, sotto il lividore di quell”in pace‘, eclissarsi una svelta figura indubbiamente avvolta dentro una mussola d’impalpabile giunchiglia a pallini neri…

       Johanaan ripiombò bocconi sul giaciglio; e come s’accorse d’aver rovesciato il calamaio sugli scartafacci, prese ad asciugare l’inchiostro con una tenerezza infantile.

       Il corteo risalì, senza commenti; il nipote del Satrapo del Nord tormentando il collare della sua gorgera e masticando tra sé sacri princìpi.

III

       Su un modo allegro e fatalista, un’orchestrina dagli strumenti d’avorio stava improvvisando una introduzioncella unanime.

       Entrò la corte salutata dal festoso baccano di duecento invitati di lusso levatisi in piedi dai loro triclini. Ci fu un attimo di sosta dinnanzi a una piramide di doni offerti al Tetrarca in quel giorno. I due Principi del Nord si davano di gomito, eccitati all’idea di togliersi il collare del Tosone Ferreo per passarlo al collo del loro ospite. Non osarono, né l’uno né l’altro. La pochezza artistica del collare, soprattutto in quell’occasione, saltava agli occhi. Quanto al valore onorifico, non essendoci niente del genere in giro, sembrò loro che le spiegazioni utili a metterlo in luce rischiassero di cadere nel vuoto, o a malapena in un successo di stima.

       Tutti presero posto; Smeraldo-Archetipas presentando figlio e nipote, due prodotti superbi (superbi, sia chiaro, nel senso esoterico e bianco), agghindati emblematicamente.

       Allora, nell’aerea sala fiorita di giunchi color giallo giunchiglia, cinta a pergolato da un’assordante uccelliera, con al centro un getto d’acqua montante in colonna a trafiggere lassù il bianco velario di gomma variamente dipinto e ricadente in un crepitìo di dolce pioggia ristoratrice, tuttociò fece dieci file di letti, ciascuno addobbato secondo il gusto del commensale, lungo le tavole a emiciclo – e, di fronte, una scena d’Alcazar di vaste proporzioni, dove il fior fiore dei saltimbanchi dei giocolieri delle bellezze e dei virtuosi delle Isole sarebbe venuto a esibirsi.

       Una brezza ben studiata correva lungo il velario, reso tuttavia pesante dai continui rovesci del getto.

       E le uccelliere, ilari pel loro frusciare colorato, tacquero a malincuore quando la musica iniziò a accompagnare il pranzo.

       Povero Tetrarca! le musiche, e la platea dei lussuosi omaggi in un giorno pomposo lo irritavano profondamente. Assaggiava appena la studiata successione delle portate, piluccandovi con spatole di neve indurita, andando in oca come un bimbo, a bocca aperta, dinnanzi agli strepitosi rabeschi del fregio volteggiante sul palcoscenico dell’Alcazar.

       Si esibivano, su quel palcoscenico:

       La ragazza serpente, esile, viscosamente squamata di blu di verde di giallo, il petto e il ventre d’un rosa tenero; glissava e si torceva, mai sazia di contatti personali, e intanto intonava da blesa l’inno che così principia: «Bilbili, mia germana Bilbili, oh tu mutata in fonte!…»

       Poi una processione di costumi sacramentalmente inediti, simbolizzanti ciascuno un desiderio umano; una vera finezza!

       Poi degli intermezzi, sul piano dell’orizzonte, di cicloni di fiori amperizzati: una tromba orizzontale di mazzetti esagitati…

       Poi dei musici pagliacci con sul cuore la manovella di autentici organetti di Barberìa che giravano con arie da Messia, punto influenzabili, anzi disposti a compiere fino in fondo il loro apostolato.

       Altri tre pagliacci recitarono l’Idea la Volontà l’Incosciente. L’Idea scilinguava su tutto, la Volontà dava capocciate alla scena, e l’Incosciente faceva larghi gesti misteriosi come chi, tutto sommato, ne sa più di quanto può dire. Questa trinità, del resto, aveva un solo identico ritornello:

       O pagana gente,

       Un bel niente!

 

       Il niente, santuario

       Al bibliotecario!

       Fu un successo d’ilarità.

       Poi dei virtuosi del trapezio, dalle ellissi quasi siderali!…

       Poi fu introdotto un pavimento di ghiaccio naturale, e schizzò fuori un pattinatore adolescente, con le braccia incrociate sugli alamari d’astrakan bianco, il quale non s’arrestò che dopo aver descritto tutte le combinazioni di curve conosciute; poi fece un giro di valzer sulle punte come una ballerina; poi disegnò al bulino sul ghiaccio una cattedrale d’un gotico fiammeggiante, senza trascurarvi un rosone, un ricamo! Poi figurò una fuga in tre parti, finendo con un groviglio turbinoso alla fachiro posseduto ‘dal diavolo‘ e uscì di scena, gambe all’aria, pattinando sulle proprie unghie d’acciaio!…

       Si chiuse il tutto con una sfilata di quadri viventi, nudità di un pudore vegetale, in una simbologia gradualmente euritmica, attraverso i calvari dell’Estetica.

       Tolti dalle carriole i calumeti, la conversazione si fece generale, e Johanaan ne faceva le spese, con tutto quel tripudio sopra la sua povera testa.

       Il disquisire dei Principi del Nord intorno all’autorità, all’esercito, alla religione suprema, scolta di pace, di pane e di concorrenza internazionale finì con l’imbrogliarsi; per tagliare corto, citarono a guisa d’epifonema il seguente distico:

       Del resto si sa che ogni uomo professa

       Il perfezionamento della Specie stessa.

       Era opinione dei mandarini che occorresse atrofizzare, neutralizzare le fonti della concorrenza sociale, chiudersi in cenacoli iniziatici, vivacchianti in pace tra loro, al riparo della Grande Muraglia, ecc. ecc…

       E la musica, andando per conto suo, pareva voler proseguire ciò che la gente era troppo effimera per formulare.

       Finché il silenzio s’allargò come una sciabica dalle maglie pallide gettata in una sera di ricca pesca; tutti si alzarono; pare che sia Salomé.

       Entrò, scendendo la scala a chiocciola, rigida nella sua guaìna di mussola; fece segno con la mano di risdraiarsi; una piccola lira nera le pendeva dal polso; sulla punta delle dita spiccò un bacio in direzione di suo padre.

       Venne a approdare frontalmente sulla pedana, davanti al sipario chiuso dell’Alcazar, aspettando che la si contemplasse con agio, divertendosi a ondeggiare, per darsi un contegno, sui piedi esangui dagli alluci divaricati.

       Non prestava attenzione a nessuno. – I capelli incipriati di pollini sconosciuti si scioglievano sulle spalle in ciocche piatte, arruffati con fiori gialli e paglie gualcite sulla fronte; le spalle nude trattenevano, rialzata da bretelle di madreperla, una ruota di pavone nano dal fondo cangiante, marezzato, azzurro, oro, smeraldo, aureola su cui spiccava una candida testa, testa superiore, certo, eppure cordialmente incurante di sapersi unica, il collo svuotato, gli occhi corrotti da espiazioni cangianti, le labbra schiuse ad accento circonflesso d’un rosa pallido su una dentatura dalle gengive d’un rosa anche più pallido, in un sorriso dei più crocifissi.

       Oh! dolce forma celestiale di estetiche ben assimilate, esperta reclusa delle Bianche Isole Esoteriche!…

       Ermeticamente avvolta dentro una mussola d’impalpabile giunchiglia a pallini neri che, agganciandosi qua e là a fibbie diverse, lasciava libere le braccia in un’angelica nudità e formava tra due ombre di seni dalle mandorle guarnite d’un garofano una sciarpa ricamata dei suoi verdi anni che riunita un poco più su della deliziosa fossetta ombelicale in una cintura a volanti doppi d’un giallo intenso e geloso gettava un’ombra inviolabile ad altezza del bacino, nella stretta delle magre anche, per finire alle caviglie e risalire da dietro in due sciarpe fluttuanti separate, riagganciandosi infine alle bretelle di madreperla della ruota di pavone nano dal fondo cangiante, azzurro, marezzato, smeraldo, oro, aureola a quella candida testa superiore, essa vacillava sui suoi piedi, quei piedi esangui dagli alluci divaricati, unicamente calzati d’un anello alle caviglie da cui piovevano delle frange smaglianti di crespo giallo.

       Oh! il piccolo Messia da matrice! Come la testa doveva pesarle! Delle mani non sapeva che farsene, anche le spalle rivelavano imbarazzo. Chi mai poteva averle crocifisso il sorriso, piccola Immacolata-Concezione? E corrotto il blu dello sguardo? – Oh! esultavano i cuori, come la sua gonna deve emanare ingenuità! Come l’arte è lunga e la vita breve! Oh, parlare con lei in un cantuccio, accanto a un getto d’acqua, conoscere non il suo perché, ma il suo come, e morire!… morire, a meno che…

       Forse ci racconterà qualcosa, dopotutto?…

       Chinato in avanti, dentro una frana di serici cuscini, le rughe dilatate, le pupille che sugano dalle feritoie delle palpebre sdorate, tormentando contegnosamente il Sigillo appeso al collo, il Tetrarca aveva appena passato a un paggio l’ananas che stava mangiucchiando e la sua tiara turrita.

       – Chiuditi in te stessa! chiuditi prima in te stessa, Idea e Forma perfetta, o Cariatide delle isole senza storia! supplicava.

       Eppoi sorrideva a tutti, da padre felice, con l’aria di dire: «State per vedere ciò che vedrete», mettendo al corrente in modo assai sconnesso gli ospiti principeschi, dal che essi si resero conto che, per decidere il destino della personcina in questione, la Luna s’era cavata molto sangue, e d’altronde era voce comune (c’era stato un Concilio in proposito) che fosse la sorella di latte della Via Lattea (per lei, tutto!).

       Così, delicatamente poggiata sul piede destro, l’anca rialzata, l’altra gamba flessa indietro alla Niobide, avendo dato libero sfogo a una risatina tossicolosa, forse per render noto che non occorreva certo credere che si prendesse sul serio, Salomé pizzicò a sangue la sua lira nera e con la voce atimbrica e asessuata del malato che reclama la sua pozione di cui sicuramente non ha mai avuto bisogno più di voi o di me, eccola improvvisare lì per lì:

       «Com’è stimabile il Nulla, Vita latente che vedrà la luce posdomani, al più presto, e stimabile, assolutorio, coesistente all’Infinito, limpido in sommo grado!». Li stava prendendo in giro? Continuò:

       «Amore! mania inclusiva di non voler assolutamente morire (ben misera scappatoia!), o fratellastro, non dirò certo che è giunto il momento di spiegarsi. Dal tempo dei tempi, le cose sono le cose. E come sarebbe giusto farsi delle concessioni reciproche sul terreno dei cinque sensi attuali, in nome dell’Incosciente!

       «O latitudini, altitudini, dalle Nebulose di buona volontà alle piccole meduse d’acqua dolce, orsù fatemi la grazia di andare a pascolare gli empirici pomari. O passeggeri di questa Terra, eminentemente idem a innumeri altre ugualmente sole nella vita in travaglio indefinito d’infinito! L’Essenziale attivo s’ama (seguitemi bene), s’ama in modo dinamico più o meno di buon grado: un’anima bella che si suona la piva in eterno, è affar suo. Siate, voi, i passivi naturali; entrate vera-Mente automatici negli Ordini dell’Armonia Ben-Vigilante! E me ne racconterete di belle.

       «Eh sì, teosofi idrocefali, come dolci volatili del popolo, anodino gruppo di fenomeni privi di garanzia di un governo ultraterreno, ritornate a essere degli individui minati dall’incuria, brucatemi giorno dopo giorno, di stagione in stagione, questi Delta senza sfinge i cui angoli, comunque, equivalgono a due retti. Là è il vero decoro o generazioni inguaribilmente puberi; simulate soprattutto l’impaccio nei limbi irresponsabili delle virtualità che vi ho detto. L’Incosciente ‘farà da sé’.

       «E voi, fatali Giordani, Gangi battesimali, sideree correnti insommergibili, cosmogonie di Mamma! lavatevi, entrando, la macchia più o meno originale del Sistematico; fate che masticati anzitempo in filacce per la Grande Virtù Curativa (diciamo, palliativa) che aggiusta gli strappi prativi, epidermici, ecc. – Quia est in ea virtus dormitiva. – Va‘…».

       Qui tacque Salomé, ricomponendo i capelli incipriati di pollini sconosciuti; le ombre dei suoi seni così ansimanti che i garofani ne caddero lasciando vedove le loro mandorle. Per riprendersi, cavò dalla sua nera lira una fuga senza senso…

       – Oh! continua continua, di’ tutto quello che sai! gemeva Smeraldo-Archetipas battendo le mani come un bimbo. Parola mia di Tetrarca! ti darò tutto quello che vorrai, l’Università, il mio Sigillo, il culto delle Nevi? Inoculaci la tua grazia d’lmmacolata-Concezione… Mi noio, ci noiamo tanto! vero, signori?

       In effetti, dall’uditorio esalava un brusio di un malessere inedito; qualche tiara titubava. Era un vergognarsi gli uni degli altri, oh debolezza del cuore umano! malgrado il perbenismo della schiatta… (vicino, tu m’hai capito).

       Poi che ebbe fatto giustizia sommaria di teogonie, teodicee e formule sulla saggezza delle nazioni (e col tono secco di un direttore del coro che dice: «Una battuta di troppo, vero?») Salomé riprese il suo mistico zirlìo appena delirante, la faccia subito rivolta all’indietro, il pomo d’Adamo che saltava da far paura, – non essendo più se stessa ormai di un tessuto aracneo con un’anima a goccia di meteora.

       O maree, oboi lunari, corsi, fioriture al crepuscolo, venti declassati di novembre, fienagioni, carriere mancate, sguardi ferini, vicissitudini! – Mussole color giunchiglia a pallini funebri, occhi sfatti, sorrisi crocifissi, incantevoli ombelichi, aureole di pavoni, garofani caduti, fughe insensate! Era un sentirsi rinascere incolto, giovane oltre misura, l’anima sistematica spirando in spirali tra rovesci dai clamori innegabilmente definitivi, per il bene della Terra, e partecipe d’ovunque, palpato di Varuna, con l’Aria Onniversale di chi s’accerta del al dunque.

       E Salomé a insistere follemente:

       «Vi dico che è lo stato puro! O settari della coscienza, perché catalogarvi individui, vale a dire indivisibili? Soffiate sui cardoni di queste scienze nel Levante dei miei Settentrioni!

       «È vita, forse, il persistere nel tenersi al corrente di sé e di tutto il resto, a ogni tappa formulando la domanda: Ah! ma chi si vuole ingannare, qui?

       «Organizzazioni, schiatte, regni: via! Niente si perde, niente si aggiunge, tutto è di tutti; e tutto è addomesticato in anticipo, senza bigliettini confessionali, dal Figliuol Prodigo (intendiamoci, lo si liquiderà a dovere).

       E non saranno dei trucchi da espiazioni e ricadute, ma le vendemmie calpestate dell’Infinito; non sperimentale, fatale piuttosto, imperocché…

       «Siete voi l’altro sesso, noi siamo le piccole amiche d’infanzia (sempre inafferrabili Psiche, questo è vero). Tuffiamoci dunque da stasera nella mansa armonia delle moralità prestabilite, galleggiamo alle derive col ventre in fiore smarrito nel vento; in un profumo di sprechi, di doverose ecatombe, verso il laggiù dove non batte il nostro cuore né il polso della coscienza.

       «In un avanzare di stanza in stanza, tra salve di valve, in fornicature senza cesure, dentro cotte smunte, e che si abdichi verso l’obliquo delle derive più primitive, in un tirarsi tutto fuori da me! – (Non posso dire che ci riesco)».

       La piccola vociferante gialla a pallini funebri ruppe la sua lira su un ginocchio, poi si erse fiera.

       Per darsi un contegno l’uditorio intossicato si asciugava le tempie. Passò un silenzio di confusione ineffabile.

       I Principi del Nord non osavano consultare gli oriuoli, tanto meno chiedere: «A che ora la si mette a dodò?» Non dovevano essere più delle sei.

       Il Tetrarca scrutava i disegni dei suoi cuscini; era finita, ma la dura voce di Salomé lo riscosse di colpo.

       – E ora, padre mio, gradirei che mi faceste portare di sopra in camera la testa di Johanaan servita su un piatto qualunque. Ho detto. Salgo ad aspettarla.

       – Ma non pensarlo neanche, piccola mia! uno straniero…

       Tutta la sala opinò fervidamente con la tiara che in quel giorno fosse rispettata la volontà di Salomé; e le uccelliere, riprendendo l’assordante scintillio, dettero il loro consenso definitivo.

       Smeraldo-Archetipas sbirciò verso i Principi del Nord; non un segno di approvazione o di riprovazione. Senza dubbio la cosa non li riguardava.

       Aggiudicato!

       Il Tetrarca lanciò il suo Sigillo all’Intendente della Morte.

       Già i convitati, chiacchierando d’altro, sciamavano verso il bagno serale.

IV

       Coi gomiti sul davanzale dell’osservatorio Salomé, che ha in uggia le feste nazionali, ascoltava il mare intimo delle belle notti.

       Un tutto esaurito di notte stellata! Eternità di braceri allo zenit! Oh! di che smarrirsi, si fa per dire, in un esilio dei più celeri! ecc.

       Salomé, sorella di latte della Via Lattea, non lasciava il suo in sé altro che per le stelle.

       Grazie allo spettro, sulla scorta della fotografia a colori delle stelle cosiddette gialle, rosse, bianche di sedicesima grandezza, Salomé s’era fatta squadrare dei diamanti esatti per disseminarli nella capigliatura e su tutta la sua bellezza e sulla camicia da Notte (mussola viola gran-lutto a pallini d’oro) onde conferire a quattr’occhi sulle terrazze con i suoi ventiquattro milioni di astri, come un sovrano che dovendo ricevere i suoi pari o satelliti li dispone nell’ordine secondo le loro circoscrizioni.

       Salomé disprezzava i volgari capocchioni di prima seconda grandezza, ecc. Fino alla quindicesima grandezza gli astri non appartenevano al suo mondo. Del resto, spasimava solo per le nebulose-matrici; non le nebulose già formate, dai dischi planetiformi, ma le amorfe, le perforate, quelle a tentacoli. – E la nebulosa di Orione, un pasticcio gassoso dai raggi striminziti, restava pur sempre la gemma prediletta della sua corona a barlumi.

       Ah! care compagne delle praterie stellari, Salomé non è più la piccola Salomé! E quella notte avrebbe visto nascere un’era nuova di relazioni e di cerimoniali!

       Anzitutto, esorcizzata dalla sua verginità tissulare, già si sentiva, al cospetto di quelle nebulose-matrici, ugualmente fecondata da evoluzioni rotatorie.

       Dipoi, il fatale sacrificio al culto (davvero fortunata d’uscirne così a buon prezzo!) l’aveva obbligata all’atto (grave, si ha un bel dire) chiamato omicidio, affinché l’iniziatore sparisse.

       Infine, per guadagnarsi il silenzio mortale dell’Iniziatore, aveva dovuto servire a delle genti contingenti l’elisir, anche se allungato, distillato nell’angoscia di cento notti della tempra di questa attuale.

       Massì, era la sua vita; Salomé era una specialità, una piccola specialità.

       Ora lì, la testa di Giovanni (come già quella di Orfeo) brillava su un cuscino tra i frammenti della lira d’ebano, spalmata di fosforo, lavata, imbellettata, inanellata, ghignando ai ventiquattro milioni di astri.

       Non appena in possesso dell’oggetto, per sgravio di coscienza scientifica, Salomé aveva tentato i celebri esperimenti postdecollatorii di cui tanto si parla; se lo aspettava: i passaggi di corrente non provocarono sulla faccia che delle smorfie senza importanza.

       Un’idea, però, ce l’aveva.

       E dire che non abbassava più gli occhi dinnanzi a Orione! Per dieci minuti buoni s’irrigidì a fissare la mistica nebulosa delle sue pubertà. Che notti, che notti future per chi avrà l’ultima parola!…

       E quei cori, quelle salve di spari, là dove si stende la città!

       Finalmente si scosse, da persona ragionevole, rialzando il suo scialletto; e scovò su di sé il torbido e sabbiato opale d’oro grigio d’Orione che depose nella bocca di Giovanni come un’ostia; misericordiosamente, ermeticamente baciò quella bocca, e la sigillò col suo marchio corrosivo (procedimento istantaneo).

       Salomé attese, un minuto!… nessun segnale attraversò la notte!… con un «suvvia!» vivace e irritato impugnò nelle sue piccole mani di donna quella zucca di genio…

       Desiderando che la testa cadesse in pieno mare senza prima fracassarsi sulle rocce delle fondamenta, prese un certo slancio. Il relitto descrisse una bastante parabola fosforescente. Oh! che nobile parabola! – Ma l’infelice piccola astronoma aveva calcolato assai male il suo slancio! sbilanciata oltre il parapetto, e con un grido finalmente umano! rimbalzando di roccia in roccia Salomé finì rantolante dentro un anfratto pittoresco lavato dai flutti, lungi dai rumori della festa nazionale, lacerata al vivo coi suoi diamanti siderali penetrati nelle carni, il cranio sfondato, paralizzata dalla vertigine, insomma conciata, agonizzando per un’ora.

       E non le fu data neppure la grazia di vedere la testa di Giovanni che galleggiava sul mare come una stella fosforescente…

       Quanto ai cieli lontani, erano lontani…

       Così trapassò Salomé, almeno quella delle Bianche Isole Esoteriche; meno vittima del caso illetterato che dell’esser vissuta nel fittizio e non alla buona, come ciascuno di noi è uso fare.

PAN E LA SIRINGA ovvero L’invenzione del flauto a sette canne

       Sul suo piffero mattutino Pan si lagna, Pan dà fiato a lamentele private destando echi nella Valle-d’Erba Diasprina, in Arcadia.

       Chi non ha vissuto un bel mattino d’estate, in una valle scervellatamente incantevole, chi non è in grado di dire: «So di che si tratta»?

       Entro uno slargo felicemente intatto, le cateratte primaverili di un sole tutto radiose nebbie di beatitudine, tutto diluvi effervescenti d’un vivo zuccherino dove il Sole stesso entrerebbe in infusione, si riversano inondando i tronchi delle selve d’alto fusto e le tovaglie delle colline e l’intera valle! O miliardi di prismi d’ottimismo! O gioventù, o bellezza, o unanimità! Oh! del sole… Giovane e immortale, Pan non ha mai amato, almeno come lui e io l’intendiamo.

       Tutta la notte, nella valle immersa in un fenomenale assolo di luna, Pan s’è lagnato amaramente sul suo imperfetto e monotono zufolo-piffero, sul suo piffero da due soldi. Poi ha finito per cedere al sonno. I sogni gli hanno svuotato anche più il cuore. All’alba ha stirato e sgranchito le sue gambe di capra dai peli torti dalla rugiada (non fa più ginnastica); ora è là in mezzo al timo, pancia in giù, poggiato sui gomiti, ed ecco che riprende a snocciolare le sue miserie sul piffero che ha solo quattro note: un solitario nella solitudine soave del mattino. Quando si ama, non resta che aspettare, così, all’aria aperta, cercando di esprimersi per il tramite dell’arte…

       Pan aspetta e intanto canta:

       L’Altro sesso! l’Altro sesso!

       Ecco la tutta Eva menomuccia

       Venire avanti, in estasi

       Pel ruolo che le tocca,

       Con un brillìo negli occhi

       Maritali,

       Con tutti i suoi capelli sulle spalle,

       Nel sacro sole che va su!

 

       Oh, dite dite!

       L’Eva menomuccia che scende dalle altezze

       Con la sua carne sacrificale

       E l’anima dai rossori subitanei!

 

       Un corpo e un’anima

       Amici dall’infanzia!

       Mia tutta donna

       Di essenza!

 

       Venendo avanti, vive

       Con un cuore troppo grande,

       Col miele rosa delle sue gengive

       E i seni timidi come due leprotti!

 

       Un venticello si destreggia

       Tra gli orecchini di cerase

       E il nasino le s’impenna quando

       Grida al sole: «Stupendo!».

 

       Ben salda sulla terra

       Butta là la sua sfida:

       «Non sono una pavoncella

       Non sono mica una pupattola!

       Tutto un can can io avrei fatto

       Per naufragare tra le braccia

       Del gran Pan!

       Intatta sono

       Come un tulipano, pura

       D’ogni pregiudizio terreno!

       Aprile! aprile!

       Felicità sospesa a un filo!».

 

       Sia! ci governino

       Dunque e fauna e flora

       Dalla sera all’aurora

       Dall’aurora a sera!

 

              Venga Eva

       Menomuccia, visitata in sogno!

       Epifania, ah! epifania

       Invenzione mia!

       Pan la smette, poi torna a considerare il mattino felicemente intatto sull’intera valle. – Un ben radioso mattino, tutto solare, un’impalpabile felicità universale! Dunque, a lui d’arrangiarsi per essere felice come ha saputo arrangiarsi il mattino.

       Facile a dirsi. Pan si riabbandona al piffero imperfetto ma fedele e degno d’essere chiamato «vecchio mio». Prova la vecchia ballata: Ho nausea delle fragole di bosco, e subito smette perché la ballata gli dà la nausea.

       Insomma! Il timo ha un brivido interno, i calabroni ronzano, i gambi delle umbelle si crogiolano a quell’arietta dolce, le cicale cominciano a rosolarsi a grido lento, e la felicità non ha limite!

       Pan, sentendosi dentro anche lui la sua brava ragion d’essere, riprende su un tono più umano il ritornello del grande amore:

       Il mio corpo ha male all’anima

       La mia anima ha male al corpo.

       Da quante mai notti spasimo

       Senza che niente accada.

 

       Non è che la sua carne mi sarebbe tutto,

       Né io presumo d’essere per lei unica-

       mente Pan. Però saremmo folli

       Di fare delle storie tra fratelli!

       Poi cerca di convincersi a voce alta, in un piccolo a parte.

       – O donna, donna! tu che l’umanità fai monomane! Io t’amo, t’amo! Ma cos’è questa parola: ti amo? Da dove viene e come suona con le sue due sillabe così comuni e così neutre? Io per me, ecco cosa mi sono inventato. Amo mi dice qualcosa solo associandone il suono, con un’intuizione non cervellotica, al suono della parola britannica aim che vuol dire scopo. – Ah! scopo, sì! «T’amo» significherebbe dunque: «A te tendo, tu sei il mio scopo!» Alla buon’ora, ora sì che ci sono! E come!

       Oh! tu vieni, a tra poco?

       Ma dove andrò a cercarti

       O mia fragile Psiche

       Che ogni attimo deflora

       Rubandoti al mio abbraccio?

 

       O come sarà tanto te! con che

       Destrezza io ti saprò portare

       Nel fondo fitto della foresta,

       Là dove fa più fresco, e tu

       Potrai stirarti sull’erbetta,

       Dopo tanti meriggi virginali,

       E abbandonarti alla stagione buona

       Dentro un concerto di cicale.

 

       Vedrai, vedrai…

       Io ingrato, e quando mai?

       Il mio abbraccio è ricco

       Quanto è ricco il mondo.

       E non è che la tua carne…

       – Zitto! ma eccola venire avanti burlona e bianca tra le erbe alte della mia prateria! Farò in modo di suonare e di cantare assorto, per non spaventarla. Mio Dio, mio Dio, che si faccia sotto, dunque!

       Ho nausea delle fragole di bosco

       Da quando in sogno io ho visto

       La mia Eva menomuccia

       Sorridermi portando un dito

       Sulla boccuccia.

       Ho nausea, posso dirlo, di mistero

       Da quando l’Eva menomuccia,

       Pur sorridendo carezzevole,

       Mi fece segno velenosetta

       Che si doveva stare zitti!…

 

       Sorriso e mistero

       O mio bel veliero!

 

       Un sorriso e poi muto,

       Ah! zitto, mio liuto!

 

       E non è che la sua carne mi sarebbe tutto, dico sul serio…

       Al colmo del mattino e al sacro Sole, nella beata prateria è apparsa proprio la ninfa Siringa, imprevista, fremente di vita e in carne e ossa (con quanta giovinezza i suoi occhioni lo affermano!): sta là, con lo sguardo estatico, il collo reclinato, le braccia penzoloni, incantata dalla lagna inoffensiva di Pan. Poco a poco, credetemi, e per meglio ascoltare s’è messa a suo agio, tra il grazioso timo, standogli di fronte ma a una certa distanza (anche se irreprensibilmente a distanza).

       Oh! è esattamente lei, rosea e pudica, stupenda come un mandorlo in fiore, nell’attesa.

       Non si vergogna, sa quello che vale, senza tante fisime. Eppure, con la sua forte capigliatura rialzata d’istinto a diadema, gli occhioni allevati in elevazione e la smorfietta d’un rosa tenero, non sembra certo presagire di essere al mondo per abbandonarsi a tal punto alla bella stagione nello stordimento delle cicale.

       Tuttavia, malgrado gli occhioni allevati in elevazione e i suoi capelli a diadema e la smorfietta così atteggiata, è proprio venuta al mondo per quella, proprio per quella tal cosa è stata attrezzata.

       – Sì, dice Pan a se stesso…

       – Ahimé! dice Pan a se stesso, e nei domani e nei posdomani essa avrà sempre i suoi occhioni vicinissimi e sovrumani e la sua smorfietta dell’altro mondo!

       Ma che importa! nelle sue meditazioni Pan s’è imbattuto in antinomie altrettanto irriducibili. Oggi, in mal d’amore com’è, accetterebbe la Donna senza tanto discutere.

       Lascia da parte gli aggeggi musicali e la guarda. Non osa ancora parlare, per timore di rompere l’incanto di quell’apparizione, tutto sommato, immeritata. Anzitutto vuol persuadersi e convincersi che essa è là, e che è reale!

       Si guardano. Lui a denti stretti, con occhi miserabili; lei coi suoi occhioni vicinissimi e la boccuccia tirata verso l’alto da bimba viziata, perfettamente soddisfatta d’essere com’è, e senza salti d’umore.

       Così, è lei che si assume la responsabilità di rompere l’incanto, giacché d’incanto si tratta. La sua voce è davvero strascicata e nostalgica, eppure incrollabilmente sorgiva.

       – Bellino, quel che stavate suonando.

       – Oh! un piffero da due soldi. Se avessi un flauto più ricco, ne farei di cose! Non dubiterei più di niente…

       Essa tace, non chiedendo che partecipazione e svago in un giorno così bello.

       – Non dubiterei di niente, insiste Pan; neanche di…

       – Di che?

       – Di dividere con voi il mio vecchio amore.

       – Davvero?

       Ha detto quel «davvero?» con un’aria non mondana ma distaccata. E, senza abbassare gli occhi, aggiusta le pieghe dritte della sua corta tunica, la sua corta tunica bianca appena stretta alla vita, proprio sotto i giovani seni, e tenuta da una fibbia sulla spalla.

       – Davvero?

       – Sì, ma non vale neanche la pena di tentare, basta che guardi i vostri occhi, così grandi, e quella smorfia, incantevole, del resto. No. E poi stamane ho un mal di testa… dico sul serio. Ma grazie d’essere venuta. La vostra presenza qui è un vero riposo per me.

       Essa tace, gli occhi vicinissimi: tutto è così meravigliosamente bello!

       Pan china la testa, si sfoga facendo a pezzi fiorellini e fili d’erba.

       Alza gli occhi: è sempre là, a suo agio nel timo, che lo fissa con uno sguardo verginalmente desto, con la sua smorfia verginalmente desta.

       No! Non si può guardare con tanta inimitabile innocenza!

       – Quando la finirete?

       – Ma cosa?

       Insomma! ha detto quel «Ma cosa?» con un tale raddoppio di perfezione dei suoi occhi e di perfezione della sua smorfia che Pan si contorce, che Pan si lascia sfuggire, nella solitudine radiosa del mattino, un singhiozzo, un unico lungo singhiozzo d’amore, semplicemente d’amore, alla Pan!

       Certo lei deve sapere da dove viene e dove va quel singhiozzo, dato che non accenna minimamente a scomporsi! …

       Pan, che se la vedeva già tutta spaurita ed era pronto a intervenire con un provvidenziale «oh! non abbiate paura!», deve contentarsi di dire:

       – Sto male, tanto male! Oh, se vi capisco! Mi obbietterete, risentita, che passavate da queste parti, che non siete che un’occasione. Che ne sapete voi? E intanto com’è che passavate da queste parti? Voi tacete… Io, io non sarei ingrato. Ah, lasciamo perdere.

       Pan abbassa la testa e riprende la strage delle erbette e dei fiorellini, come un maniaco imbelle. Rialza gli occhi: è con tutto il peso della sua bellezza apparentemente senza scopo che essa lo guarda. – Se le si gettasse immortalmente ai suoi piedi per stordirla! Ma si contiene. Accada quel che deve accadere; tutto è nel Tutto. E riprende il suo piffero, il suo vecchio zufolo a quattro canne, col fare di un giovanotto a cui basta l’arte, a cui bastano poche scale al giorno.

       Chimericamente tuba:

       Occhi belli accesi

       In brillio di sponsali!

       Anima, tutta in rossori subitanei,

       Carne unta di false piste, interamente!

       Non è che la sua carne mi sarebbe tutto

       Né io presumo d’essere per lei unica-

       mente Pan. Però saremmo folli

       Di fare delle storie tra fratelli!

       Aprile! Aprile! (qui un ritardando a morire)

       Nostra felicità sospesa a un filo!

 

       Epifania! Epifania!

       Strada libera al mio genio, via!

       Per stamane ha lavorato anche troppo. Pan rialza la testa. Essa è là, sorridente, come disarmata da quel bambinone, e un po’ anche dalla bellezza eccezionale di un mattino come questo.

       E pensare che basterebbe rispondere a quel sorriso con un franco sorriso! Pan crede di cavarsela con una superiore alzata di spalle e con una posa da conquistatore.

       – Parola mia, avete degli occhi incredibili, dico a voi, chiunque voi siate! E un ovale così sottile in basso! E una smorfia che vi conviene! Vi capita di sognare d’essere diversa quando vi guardate allo specchio di fonte?

       – Ma no, dato che si ha il viso della propria anima che la mia anima non saprebbe immaginare qualcosa che sia più se stessa del mio viso. È in un circolo vizioso, qui vi riconosco bene.

       – Fortuna che siete una dea! se così non fosse verrebbe un tempo, quello della vecchiaia, in cui la vostra anima immaginerebbe un viso diverso dal suo.

       – Non ci avevo pensato, siete davvero realista.

       – Sono Pan.

       – Pan chi?

       – Io sono… ben poco in questo momento, ma normalmente sono tutto, sono per definizione il tutto. Cercate di capirmi: sono io che sono, e il lamento del vento…

       – Già, e Eolo?

       – Ma no, capitemi! Io sono le cose, la vita, le cose… in un certo senso, classicamente. No, io non sono niente. Ah! sono ben disgraziato! Avessi almeno uno strumento più ricco di questo piffero! vi canterei tutto quello che sono, oh, canterei in un modo straordinario! La sobrietà classica mi fa ridere! Dei Kyrie, dei Gloria in excelsis, e poi delle belle ariette vivaci come dalle mie parti.

       – Possibile che un uomo non riesca mai a essere chiaro con noi donne? basterebbe dichiararsi in buon francese, voglio dire nel nobile aereo dialetto ionico; e invece no, ci vuole la musica e subito! la musica così grossolanamente infinita…

       Pan si raddrizza infuriato!

       – E voi allora! nient’altro che il suono della vostra voce. Voi, guarda un po’, solo la musica della vostra voce! Cos’è, più leale, questo? Ah, miseria, miseria da tutte e due le parti, vi assicuro io!

       E si rotola davanti a lei, nel timo, come un lercio Calibano, ma disperato. Essa l’osserva con tanto d’occhioni compassionevoli, però compassionevoli con riserbo.

       Pan si riprende, e con un tono solenne:

       – Insomma! nobile vergine, o chiunque voi siate, voi che pure avete una forma definita, state a sentire! La giornata procede e io non ho mai amato. Volete lasciarvi essere tutto per me in nome del Tutto?

       Un silenzio (tempo perso durante il quale la natura continua incurante).

       La ninfa Siringa si erge lentamente in tutta la sua bellezza. E dice pacata:

       – Sono la ninfa Siringa, un po’ naiade anche, perché mio padre è il fiume Ladone dal bel torso e dalla barba fiorita. Ritornavo dal monte Licèo…

       – Capisco, capisco, una naiade! Devo sembrarvi ben brutto, ben Calibano, ben capricante! Una naiade! Una cugina del bel Narciso, figlio del fiume Cefiso! Peste! Bello, Narciso, eh? distinto!

       La ninfa Siringa s’irrigidisce, scosta un ricciolo dalla sua fronte alta, e proclama con voce rude e sorgiva:

       – Voi vi sbagliate! Io sono un’anima estetica immersa sette volte nell’acqua diaccia della fonte Castalia cara alle caste Muse; io sono la più fedele delle compagne di Diana…

       Pan indietreggia! Siringa alza le braccia a quel puro firmamento dove, stasera, risplenderà Ecate; a quel gesto i suoi pallidi seni rimontano sotto la tunica diafana e si stemperano in proporzione, intatti e lunari:

       – O Diana! Imperatrice delle notti pure! La mucosa del tuo cuore è ruvida come la lingua dei tuoi molossi. Tu salti i fossi e parli poco. L’acciaio dei tuoi sguardi gela il sangue rosa alle ragazze che vorrebbero subito ammalarsi. Le pieghe della tua clamide sono di una purezza dorica. Al ritorno dalle tue grandi cacce è un crollare di schianto sulle foglie secche in un sonno che non conosce sogni, fino alle trombe dell’alba! A caccia! A caccia!

       Siringa prorompe in una stridula risata da Valchiria e, già dimentica di Pan, dà inizio alla sua corsa, una giovane corsa impetuosa, per prati e nella valle, in un bel mattino!

       E Pan, col cuore a pezzi per l’ampia tristezza primigenia, la guarda andare! senza che si volti. Inchiodato e avvilito di botto, infelicissimo come se gli si rivelasse lo stato di miseria e di lordura in cui senza alcun dubbio viviamo. Schietta a quel modo e impetuosa e con lo sguardo dritto dinnanzi a sé! Povero Pan! Oh! come in un lampo gli passa dentro la rivelazione del vasto e leggendario dolore di Cerere che si trascina su tutta la terra, impolverata e mendica, interrogando i pastori, in cerca di sua figlia Proserpina scomparsa un mattino mentre raccoglieva dei fiori di campo che metteva insieme per sua madre.

       Amore! Amore! Vuoi dunque che qui m’incenerisca, senza una parola, senza un verso?

       Ma Pan è immortale! E al pensiero di quella sera, solo con la sua tristezza di genio, oh, all’idea del suo genio, all’idea delle dispute sublimi nelle quali incanterebbe la stessa Diana, Pan si riempie i polmoni d’aria pura, che è di tutti, e corre dietro la preziosa fuggitiva! A caccia! A caccia!

       Così ha inizio il leggendario inseguimento della ninfa Siringa da parte del dio Pan in Arcadia. Che avventura!…

       Oh se l’avrà! la costringerà in ginocchio in qualche angolo buio di bosco, le dirà il fatto suo piegandola al suo stato, allora sì che potrà adorarla di tutto cuore, nel suo buon cuore oscuro!

       Essa è già lontana; si volta e si vede inseguita. S’arresta un attimo, a far fronte, poi riprende il travolgente galoppo!

       – Ah, tu fuggi, fuggi! Ma ti avrò! ti torcerò i polsi, farò a pezzi i tuoi ossicini di gatta, te lo farò vedere io…

       Lungo giorno leggendario, come sei lontano! non ritornerai più… Questo accadeva in Arcadia prima della venuta dei Pelasgi.

       Il sole sovrasta, le praterie sono entusiasmanti, gli uccelli si sgolano nel paesaggio, e tutti quei cespugli degni di nota! Delle coppie di cervi smettono di bere, gli stambecchi arrampicati sulle rocce a picco non brucano più, e al margine dei boschi rasentati in corsa gli scoiattoli spiccano brevi salti secchi, tra le foglie secche, intervallati da silenzi pieni.

       Oh! quando avrà vinto e domato quella piccola selvaggia sovrumana, verranno a errabondare da queste parti, e lui non si vendicherà mai abbastanza, le farà del male per lo sfumato di una foglia!

       A caccia, nell’attesa, a caccia! tutta la mattina…

       Siringa conserverà ancora a lungo il suo vantaggio, lei non è sfinita da insonnie e da febbri, non ha perduto l’abitudine alla ginnastica, ha ben dormito e vive con metodo. Passi ancora finché si sta in pianura, ma se si costeggia un bosco, di quando in quando Siringa si diverte a sparire al margine tra gli alberi, e Pan deve fermarsi, che non sia una trappola, che non prenda per i boschi lasciando il terreno battuto.

       – Oh! ti avrò, ti avrò! e ti terrò il broncio per tre giorni e tre notti. Ma come ti amo, ti amo, mio unico scopo! Com’è bella la tua fuga! E come il mio cuore di Calibano s’illumina a ogni attimo della tua fuga, e quante mie belle lacrime ti varrà stasera, non appena t’avrò perdonato!

       Sfilano boschi e praterie e paesaggi, e nella corsa Siringa si trova di fronte a un’alta scarpata vertiginosa, stecconata da rovi fioriti. Siringa obliqua e s’accinge a attaccare l’ostacolo di lato, attraverso un pendio dolce che la porta a sistemarsi lassù, in vista di Pan che sopraggiunge dritto. Essa lo guarda venire. Invece di obliquare come lei ha fatto, Pan naufraga al piede della muraglia scoscesa. Si ferma. Sarà una tregua, durante la quale potrà così contemplarla (oh! che almeno ci s’imbeva di questa realtà presente!). Non v’è dubbio che riprenderanno a discutere, forse finirà da buoni amici, nel sole di mezzodì.

       Come domina irresistibilmente di lassù, in quella fiera posa ancora ansante! in tutta la sua fresca e casta figura, con la chioma che è un solido diadema, con i suoi occhioni vicinissimi, vergini di ogni insonnia così come l’acqua di fonte lo è dell’essenza di rosa! E le sue gambe, di lassù, come appaiono pure e perfette!

       – Perché m’inseguite? essa grida con una voce abituata a lanciare e a trattenere le mute di Diana.

       – Perché vi amo; voi siete il mio scopo! risponde, al diapason di panteismo della sua voce.

       Al diapason di panteismo della sua voce! Ma Siringa, compagna di Diana, è spiritualista, deve sapere il fatto suo sulla riproduzione ecc.

       – Mi prendete per una bestiola, una bestiolina catalogata? Sappiate che non ho prezzo!

       – E io sono un artista, un essere strabiliante! Tutto sommato io ho l’anima di un grande pastore, vedrete.

       – Se vi dico che il mio orgoglio di rimanere me stessa vale almeno la mia prodigiosa bellezza! Anche se a volte so essere bambina…

       – O Siringa, osservate, sforzatevi di capire la Terra e la meraviglia di un mattino come questo e la circolazione della vita. Voi là, io qui! Oh voi! Oh io! Tutto è nel Tutto?

       – Tutto è nel Tutto! Davvero? Ah, voi e le vostre formule bell’e fatte! Ebbene, prima cantatemi la mia bellezza!

       – Oh, sì, ecco!

       Resta lassù a aspettare, ben piantata, con un’espressione di disponibilità indefinita. Pan s’arrampica su un albero non lontano, di fronte a lei ma neanche a portata di mano, e si siede tra i rami con le gambe penzoloni.

       Comincia, guardandola negli occhi per meglio concentrarsi:

       – O ben immacolata concezione… No no! capite che non troverò altro.

       – Ho tempo, in fondo non è che un gioco, animo! Quando vorrete vantare la mia bellezza se non ora? Su, analizzatemi! analizzatemi! Mostrate di valere qualcosa, siate il mio specchio come la coscienza umana vuol essere lo specchio dell’Ideale indefinito…

       – Eh no, bimba mia ideale! Avreste buon gioco con l’ineffabile! (A dottrinaria, dottrinario nell’ossa!).

       – È riconoscere incidentalmente che la felicità risiede nella ricerca dell’Ideale, punto e basta.

       – A questo punto non posso rispondere che con uno sgarbo.

       – Dite pure.

       – È che voi spostate il problema. Voi non siete lo scopo del mio inseguimento; sotto il pretesto di questo stesso scopo, voi non siete che una tappa intermedia. In fondo è la stessa cosa perché fintanto che io non vi conosco, voi siete per me lo scopo in sé, l’Ideale. Quando vi avrò attraversato, o tappa, pur così assoluta, allora io vedrò al di là! (A dottrinaria nell’ossa, la verità in carne e ossa!)

       – D’accordo. Ma potrei facilmente costringervi a marcire dinnanzi all’illusione che mi appartiene oppure costringervi a saltarla. Ma, come voi, non voglio essere che vittima di una mutua illusione. Anzitutto ditemi almeno il colore della mia illusione.

       – Ehm ehm… ben immacolata concezione… Io chiudo gli occhi: due occhioni come i vostri esistevano già di per sé, come anime immortalmente attente. Il sacro arco di Diana non ha una curva più inesorabile dell’arco della vostra bocca… via, non distendetelo! I vostri occhioni preannunciano qualcosa che chiamerò cristianesimo, e la fierezza del vostro portamento è proprio per chi guarda sopra le greggi di Pan per vedere se il Messia non venisse!

       Siringa s’è seduta sulla scarpata con le gambe penzoloni tra i rovi, gambe perfette e soavi dai piedi calzati di bianchi sandali. S’appoggia sul gomito destro, il capo sulla mano, offrendo i suoi occhioni nostalgici e inesplorati.

       Pan continua a balbettare inezie:

       – Tutto è nel Tutto! E la piccola Siringa è un prodotto della Terra. E no! forse che amandovi io sono in grado di enumerare le vostre bellezze? Aspettate che vi raggiungo… No no! restate! Siete bella, siete spontaneamente perfetta! I vostri organi respirano il prezzo dell’immortalità naturale! Noi galopperemo in perpetui fidanzamenti tra i rovi dei monti! Oh, come dovete essere bella a caccia!

       – A caccia! a caccia! acclama Siringa che resa divina da quel richiamo è balzata in piedi e riprende il galoppo verso la giornata! emettendo clamori da Valchiria!

       Hoyotoho!

       Heiaha!

       Hahei! Heiaho! Hoyohei!

       Si ricomincia. Prima di scendere dal suo ridicolo osservatorio, Pan studia la direzione che prenderà la sua bella. Gli tocca tornare indietro e scalare la scarpata sul fianco, lungo il pendio dolce. Scosso d’indignazione, Calibano si risveglia a un ardore primigenio! un mugolìo rauco da povero orso incompreso che han fatto troppo ballare gli esce dalla bocca. Coi suoi salti divini la piccola ha preso un certo vantaggio ma non è più che una questione di tempo!

       E il leggendario inseguimento della ninfa Siringa per opera del dio Pan prosegue lungo l’afoso pomeriggio che finirà per sciogliersi nella sera…

       Ora sì che è donna, di sicuro! Sarà sua, sarà sua laggiù, in cima all’azzurra collina e non oltre; oppure nel fondovalle che segue, e le metterà paura nell’antro a lui noto dove si sdrucciola pel bagnato. Tutto è Tutto, poi la costringerà a gridare Aditi! Magari per finire col chiederle scusa, ma che importa! Oh! sorga pure stasera Diana col suo pallido discobolo, e ne vedrà di belle! Non per niente tutto è nel Tutto!

       Via! attraverso foreste di pini in solitudini chilometricamente claustrali dove fa buio dal principio del mondo, allorché Dio disse: «Sia fatta la luce!». A balzi, la piccola immortale riempie i grandiosi anditi d’ostinati clamori:

       Hoyotoho!

       Heiaha!

       Hahei! Heiaho! Hoyohei!

       – Felici gloriosi richiami! Oh! come mi ha capito! A caccia a caccia! Ora sì che ti capisco! non vuoi essere felice che stremata e coi piedi in sangue! Oh, certo! curerò i tuoi piedi gloriosi, laverò le tue membra intatte e perfette, ti cullerò tutta notte cantando sottovoce Aditi! In cima alla collina azzurra accenderemo i fuochi della sera. Così per tutti i giorni, un giorno dopo l’altro! E tutto l’Olimpo parlerà del genio di Pan e dei suoi nuovissimi amori, pieni di temperamento moderno. Oh! come mi sarà preziosa nell’imminente autunno, alla caduta delle foglie che sfugge ancora a ogni comprensione! Farò in modo, per allora, che il mio piffero sia perfezionato affinché canti alle prime nevi la cosa che è la cosa! Hoyotoho! Corri sempre, fuggi, fuggi! La sera tarda a scendere.

       E Pan, che vuol lasciare un po’ di respiro alla sua fidanzata, giunto in cima a un poggio dominante una nuova pianura, Pan ristà. La fidanzata si volta un attimo e stupisce; ne ha abbastanza? vuol rinunciare al gioco? Non si fida, riparte! Hoyotoho! la sera tarda a scendere.

       In un punto della pianura c’è lo smagliante riquadro di marmo bianco di una tomba. Siringa vi si arresta e si curva come a odorare un fiore, poi emette un Heiaha! di scherno e riparte veloce spiccando salti divini!…

       E sia Heiaha! Pan si precipita giù pel poggio e l’insegue con salti ugualmente divini!…

       Gli tocca di fermarsi a sua volta presso quella tomba di marmo bianco, e si curva come l’oggetto del suo inseguimento; non vi sono dei fiori da odorare ma un’iscrizione su cui riflettere:

       ET IN ARCADIA EGO

       «Anch’io vivevo in Arcadia!».

       – Poveri mortali, ne hanno di ragioni, loro, per amarsi!

       Quanto a Pan e a Siringa, che sono immortali, non c’è fretta.

       La pianura si stende fino alla collina azzurra, vasta come un meriggio che finirà presto per sciogliersi nella sera. I clamori: Hoyotoho!… Heiaha! si fanno più rari. Che pianura!

       Che pianura!…

       Che pianura!…

       Poco a poco, dato che tutto cammina, il sole va giù. La povera ninfa sente che il crepuscolo s’avvicina tessendo le maglie invisibili della sua rete. Siringa perde terreno; già è prossima la collina azzurra da scalare, stecconata, senza dubbio, da rovi atroci. Nei rovi dovrà arrampicarsi, nei rovi, fin che potrà, tutta in sangue, da fargli pietà!…

       – Viene meno, vien meno e non vuol cedere! Mi prende per un Calibano lussurioso. Ma, in ginocchio, io arresterò il sangue che sgorga dai tuoi piedi! – Oh! sto per toccare i suoi capelli, per passare più e più volte il dito sul suo braccio delicato; farò in modo che si occupi di me! Saprò conquistarla con la dolcezza, e con qualche argomento fatalista. Dovrò anche pensare alla cena. Finirò per confonderla con un mucchio di piccole attenzioni contraddittorie… Ne piangerà di sicuro, in un singhiozzo di perdoni infiniti!

       Ecco l’ora del pastore…

       Il sole fa i suoi addii, o piuttosto dice arrivederci senza eccessive smancerie (altri tempi!). Ecco che calano sui paesaggi brividi e languori di tardive tenerezze.

       Il pioppo freme, albero così signorile che sceglie il suo momento! E sull’immotivato imbrunire dello specchio delle sue acque piange il salice piangente. Colline e sfondi s’abbuiano di solitudine inquieta. Le raganelle stanno per cantare, né tarderanno le stelle, le stelle che non potrebbero tardare. Non ci manca che l’Angelus. (Altri tempi, altri costumi). Ma, o crepuscolo! fraternità, innocenza, e che Dio ce la mandi buona. O ripositorî, nevvero! che l’Ignoto resti dov’è, e pace in terra alle coppie di buona volontà!

       O fastelli di un passato, paese natale (si fa per dire), false convalescenze! Presto farà notte, e la lucciola andrà in giro, e il gufo dirà la sua.

       Ma grazie a Dio, ci si vede ancora, e la giovane donna tiene sempre duro e promette a se stessa di scalare la collina che ormai la sovrasta, per poco che possa ritardare la frattura della sua vita in due.

       Quel crepuscolo che strozza gli Heiaha! in gola, altroché se lo conosce! e una volta gettata la rete della sera, non ci vorrà niente di meno del chiaro di luna di Artemide-Vigilante per spazzar via con la sua inondazione tutto quel po’ po’ di ambulatorio. Essa va e va! e giunge alla collina…

       – O crepuscolo tu non mi tocchi, non mi toccherai mai! non c’è voluttà positiva che saprebbe penetrare nel ciborio del mio essere!

       – Ma chi mormorava laggiù?…

       Ah! sventura! tre volte sventura! a mormorare laggiù, dietro le canne, è un fiume traditore, vago e profondo, che impedisce l’accesso alla collina. È un’acqua vaga nella sera…

       Scosta le canne e vede il fiume, largo e silenziosamente mortuario! E Pan che sopraggiunge, l’uomo, ebbro di notte!

       È là; Siringa si volta e alza la mano verso di lui, che si ferma a distanza.

       Com’è bella così nella sera! Cosa pensare?…

       – Volete dimenticarmi?

       – Oh! perdono, perdono! Vedete bene ch’io non c’entro per niente. Ma dimenticarvi! Io vi amo, voi siete il mio scopo, io sono io, e la sera vien giù! Lasciate, che m’incarichi di spiegarvi ogni cosa. Oh! ma cos’è che di me vi ripugna? Oh! focolare contro focolare! Non respiri forse da tutti i tuoi liberi pori questa notte d’estate? Notte d’estate, malattia sconosciuta, quanto male ci fai! Non sento altro che noi due, io! O ricca notte d’estate, ora sì che ricordo i racconti inebrianti che mi faceva Bacco sulla conquista dell’India! Mi ricordo, né posso staccarmi da Delfi! Oh la furia del gracile flauto che fa scoppiare la tempesta sulfurea a chiusura delle vendemmie e si appella alle burrasche lustrali! Tirsi, e chiome arruffate? Misteri di Cerere, misteri e sagre paesane, e fossa comune! Astarte! Ashtoret! Dèrceto! Adonai! In cerchio nella prateria che si accende di danze, tra convitti di Sulamite, nello schiamazzo di tutti i flauti salamboici! Tutto è nel Tutto!

       – Non vi avvicinate! Il mio respiro va al passo con la gelosa nostalgica ammirazione per tuttociò che è animato e inanimato, per colei che passa sola e in buona salute, che va verso il chiaro di luna dei monti e i cui amori non conoscono domani ma unicamente vigilie!

       – Certo, siete perfetta così come siete, dentro un’armatura che vi calza a pennello. Ma quando verrà l’autunno, povera cara? che farai con un cuore che respirerà la mortalità dei paesaggi fino a tossirne dal fondo del cuore?

       – Mi rannicchierò dentro una tana che ci è nota in Ircania e non ne uscirò Hoyotoho! che per saziarmi Hoyohei! attraverso la manna serena della caduta delle nevi!

       – Sì, senza dubbio, l’autunno è ancora lontano, se mai ritornerà! Ma com’è piena la notte d’estate che stiamo vivendo! O Siringa, io non posso andarmene così! Dopo una giornata come questa, come potrò dimenticarti, o consolatrice del mio genio troppo… tutto! Perché tutto è nel Tutto! E vorreste farmi credere di esserne al disopra?… Guardate, già, quei lampi di caldo!… Astarte! Adonai! Dio vuole così!

       – Hoyotoho! non mi avvicinate! Heiaha! Heiaha? Aiuto!… Come non vedi, bamboccio, che la voluttà sta nel desiderio, che la felicità sta nel passare muovendo a invidia le coppie assetate di felicità?

       – E sia, io morirò; io che vi avrei curato così bene! La mia follia è divina, certo, ma non quanto il prezzo della vostra volontà. Perdono, vi chiedo perdono, morirò in dolcezza. Esalerò l’anima nel mio semplice e grezzo piffero da due soldi cantando l’esilio di cui la vostra visione mi ha onorato.

       – Lo capite da voi, non c’è che l’arte; l’arte questo desiderio perpetuato…

       Ah! come effetto, si è espressa in un tono così ingannevolmente caritatevole che Pan non esita più, non potrebbe più esitare: a testa bassa, spalancando le braccia, si butta a caricarla risoluto! Ecco la donna debole, la sola degna in effetti di tal nome, perseguitata e avvolta nell’indifferenza delle belle sere!

       In uno slancio supremo d’inumanità, con tutta l’immortale purezza dei suoi occhi che affrontano l’altro, Siringa trattiene ancora un istante Pan, gli getta a sfida un ultimo Hoyotoho! dopodiché va giù a capofitto dentro un sottile sipario di canne, abbandonandosi alle acque!

       E l’innamorato di genio, che ha spiccato il salto, riesce a trattenere nell’abbraccio schietto solo qualche arido flabello di canna! Si fa largo e guarda: vede la bella bimba in salvo, accolta, bianca tra quelle bianche braccia, dalle chete naiadi che se la portano via in linee chete!

       Fuggevoli trastulli che increspano appena i riflessi crepuscolari del fiume lento e mortuario sotto il bel cielo della sera…

       Tutto si è svolto in silenzio, ed è già finito.

       Ed è subito sera, la sera che non porta consiglio.

       Oh! laggiù dirimpetto, sul pelo dell’acqua, è sempre la sua testa amata che ancora guarda immobile, o semplicemente un mazzetto di gigli d’acqua che gioisce a suo modo?

       È la fine, il fiume s’addormenta.

       Fu una vera vergine e un segno, sicuramente, dei tempi nuovi.

       A questo punto Pan, che non riesce a togliere gli occhi dalla tomba del suo sogno contraddittorio, a questa rivelazione dei tempi nuovi ai quali il suo genio forse non saprà adeguarsi, Pan se ne esce in un sospiroso «oh!» d’un tedio così adorabilmente giovane, ah, in un «oh!» così disinteressato dopo quel po’ po’ di giornata, in un «oh!» così inviolabilmente inconsolabile e senza seguito, così innocentemente unico, oh, così beatamente in uno di quegli «oh!» come non capiterà più di sentirne qualunque cosa tutti i tempi nuovi ci potranno mai portare, che d’improvviso ecco che s’alza una voce musicale esalata là dirimpetto da quel mazzolino di gigli d’acqua, una voce che scivola sul fiume mortuario e dice: «O, brezze, su da brave, commettetegli la mia anima».

       E un vezzo di brezza scivola via a eseguire un qualcosa in fru-fru regolati dentro un sipario di canne alte e cave, dalle seriche lunghe foglie, dai flabelli che intonano canti.

       Questa brezza d’anima tra le canne, è qualcosa! Pan drizza le orecchie puntute.

       O fremito costante, baci d’ali, ghirigori di rumori, ventagli all’unisono nebulizzanti l’acqua che zampilla nell’antro d’Armida, stoffe di fate sgualcite, l’alto silenzio che sogna, spugna passata sull’intera poesia!…

       Tuttociò sussurra misericordioso: «Presto presto, amico, è l’anima sua che passa in queste canne che stringi tra le mani!».

       A piene mani Pan si comprime il cuore più divino che mai; si asciuga una lacrima, getta il vecchio zufolo nell’avello del fiume e preso da un’ispirazione universale, senza più esitare, senza grattarsi l’orecchio né tormentare la barbetta a punta stringe in un abbraccio quei càlami incantati poi taglia tre gambi e ne fa sette canne di lunghezza decrescente che scava, svuota del midollo, fora di buchi e lega assieme con due giunchi.

       Il flauto è bell’e fatto, e dei più nuovi!

       Pan vi fa scorrere le sue labbra aride di speranza di baci, e ciò che cava da quel flauto è una gamma miracolosa di una nuova èra che dice schiettamente la sua felicità di flauto, la sua felicità di venire al mondo in una bella sera dell’Età Pastorale!…

       Pan, ridendo tra le lacrime, gira e rigira con grosse dita di Calibano il nuovo flauto, il flauto dalle sette canne, la divina Siringa.

       – Oh! grazie, grazie! Sette canne!

       Ormai fa buio, il mazzetto di gigli d’acqua dirimpetto è sparito.

       Pan si siede tra le canne, preludia e ripreludia e stringe il suo giocattolo sul cuore, lo sfiora con le carnose labbra, e si concentra.

       È calata la notte. Non si vede più che la solitudine della campagna, non si sente più che il fresco del fiume. O notte memorabilmente attenta, andiamo!

       Pan comincia: «Mio inno, sviluppati non in avanti ma su te stesso, così come dovrà fare la coscienza terrestre se non vuol rompere l’incanto e chiudere per sempre gli occhi belli a Maia la Placida!».

       Dapprincipio non sono che funambolici lancinanti smaniosi sfacciati trilli che uggiolano, si spengono e spirano in un rosario pio da miracolato.

       Allora s’alza una nota isolata e tenuta, calma come un aerostato su una folla di babbei.

       Ed è il canto, chilometrico, pallido come una romanza di purificazione, subito interrotto da una gamma pesante come una campana ruzzolante giù dal suo improvvisato castello, che poi si smaglia e si sviluppa in ghirlanda attorno a una base che aspetta la sua statua che per fortuna non verrà mai e poi mai.

       Allora, alla rinfusa: introibo rimontanti al diluvio, kirie in carovane senz’acqua, offertori nel marasma, orazioni intirizzite e cadute ben in basso, litanie troppo facili, magnificat che si smarriscono in dettagli, schiumanti miserere e stabat attorno a un presepe o a una cisterna che fa da specchio a Diana-la-Luna.

       Pan s’asciuga le labbra col dorso della mano, posa un attimo il flauto e parla a se stesso.

       – Son proprio solo: monotona è la mia canzone dato che io non so fare altro che amare, e gemere fino a nuovo ordine avendomi lasciato la mia bella. Oh! giornata ormai trascorsa! Siringa, t’ho sognato forse? La ricordo, minuto per minuto e parola per parola, e il suo modo di guardare e il grado d’inclinazione del suo collo e il suono della sua voce, e tuttavia non posso dire di averla vista né di averla sentita! Una volta di più mi sarà mancata la presenza di spirito d’immedesimarmi nella presenza delle cose! Avrei potuto esaminarla per sempre da capo a piedi, e ascoltarla in eterno e catturare la sua formula al vivo! Invece di far questo, a che pensavo? a tutto! Ed è passato. Ahi! sono proprio inguaribilmente nel Tutto. Povero spensierato, chi mai getterà un ponte tra il mio cuore e il presente? M’avesse almeno lasciato una ciocca dei suoi capelli da premere sulle labbra fino all’evidenza…

       E riaccosta alle labbra il suo flauto a sette canne, il suo flauto talismano, anima di Siringa. Ed è ancora lo Stabat, poiché è lecito ripetersi in una così bella sera dell’Età Pastorale, lo Stabat nei pressi di una cisterna dove si specchia Diana-la-Luna.

       Alza gli occhi; eccola, la Luna! Palpabile, gloriosa, abbagliante a tutto tondo, che sale all’orizzonte puro e malinconico su una linea nera di colline.

       Pan strapazza il suo Stabat e scaglia un’imprecazione a Diana:

       «Hoyotoho! lassù! scudo di ghiaccio, Luna color canfora!

       «O Diana, sapessi come la tua divinità mi lascia freddo, io che non ho niente da spartire coi tuoi difetti di sviluppo…

       «Ma perché giri agghindata di un sesso? che te ne fai di quegli organi impuri? o che castità così poco immortale è la tua che ha bisogno, per resistere, di ricorrere a simili esche per attrarre (spettacolo sconcio e riconfortante) il maschio reso insano e schiavo?

       «E da dove ti viene questa divinità? da un grande amore impossibile o morto e sepolto? Macché! scommetto che non hai mai sognato il nostro sesso, il nostro sesso più che legittimo! No, sei stata educata nelle foreste, alle grandi cacce in tutte le stagioni, alle setole ispide dei cinghiali, al sangue, ai latrati, alle docce ghiacciate in fondo ai boschi. Sei un uomo, piuttosto, sublime e pallido, un piantatore proprietario di schiave bianche, e tu sferzi crudelmente le tue compagne di caccia e con riti inconfessabili cauterizzi il loro povero sesso nel segreto delle selve claustrali. Va, va che so tutto! Non sono un allucinato. Tutto è nel Tutto, a cui io taccio da coraggiosa sentinella empirica!».

       Ma la Luna, abbagliante a tuttotondo, sola nel firmamento, resta imperterrita…

       E Pan, tremante di febbre, ruzzola dentro sogni da Mille e una Notte d’abiezione, nel vento della sera che s’attarda bighellone a canzonare le brezze di tutti i recessi, i belati di tutti gli ovili, i sospiri di tutte le banderuole, gli aromi di tutte le medicazioni, i fru-fru di tutte le sciarpe perdute sui rovi delle contrade.

       O clima estatico, incantesimo lunare! È proprio vero? È l’Annunciazione, o è solo la storia di una sera d’estate?

       E Pan, balzando su come un matto, senza neanche un addio al fiume morto, e stringendo il suo nuovo flauto contro il fianco ferito, riparte al galoppo nell’incantesimo lunare verso la sua valle, pilotato dalla Luna, alla ventura!

       Per buona sorte e ormai gli basta di cavare, in queste ore tristi, una nostalgica gamma dalla sua Siringa a sette canne per rimettersi in cammino, a testa alta, gli occhi grandi e vicinissimi, verso l’Ideale che è maestro a noi tutti.

PERSEO E ANDROMEDA o Il più felice dei tre

 

I

       O patria monotona e immeritata!…

       Isola, unicamente, in un giallo grigio di dune sotto cieli migratori, e il mare dappertutto che chiude la vista, coi gridi e la speranza e la malinconia.

       Il mare! da qualunque parte lo si scruti, per ore e ore, in qualunque parte lo si sorprenda: sempre lui, mai in difetto, sempre solo, dominio dell’insocievole, gesta in fìeri, inappetibile cataclisma – come se lo stato liquido in cui ci appare non fosse altro che decadenza! E i giorni in cui butta a mare tale stato (liquido)! e quelli più intollerabili quando assume la smorfia vittimistica di chi non ha una faccia della sua tempra da rimirare, di chi non ha nessuno! Il mare, sempre il mare, senza un attimo di cedimento! Insomma, non ha certo stoffa d’amico (Oh davvero! che si rinunci a una simile idea, finanche alla speranza di condividere familiarmente le sue rabbie, restando soli soletti malgrado tutto il nostro frequentarci).

       O patria monotona e immeritata!… Quando mai tutto ciò finirà? – Ma come! in tema d’infinito: lo spazio monopolizzato da un mare esclusivo impassibile e senza limiti, il tempo espresso da cieli esclusivi percorsi da stagioni impassibili in un migrare d’uccelli striduli grigi e selvatici! – Eh! che ne sappiamo noi di tuttociò, che possiamo fare di fronte a una simile scontrosità confusa e ineffabile! Allora tanto vale morire subito, dato che ci portiamo dentro fin dalla nascita un buon cuore sentimentale.

       Un mare qualsiasi, oggi pomeriggio, d’un verde scuro a perdita d’occhi; un accavallarsi a perdita d’occhi d’innumeri schiume tutte bianche ora accese ora spente ora riaccese, gregge sterminato di pecore natanti, anneganti, riemergenti e mai approdanti, e che si lasceranno sorprendere dalla notte. E su tutto questo, i trastulli dei quattro venti, un trastullarsi per amore dell’arte, pel gusto di un meriggio trascorso a frustare le creste di schiuma dentro un polverìo iridescente. Che un raggio di sole oh! venga a franare, e sulla schiena delle onde ecco la carezza d’un arcobaleno simile a un’imponente orata apparsa per un attimo a galla e subito inabissata, ottusamente malfida.

       Ecco tutto. O patria immeritata e monotona!…

       Il vasto ripetuto mare giunge asmatico e grondante fino alla piccola ansa dalle due grotte imbottite di piume d’edredone e di pallide stramaglie di fuchi troppo cresciuti. Ma il suo lamento non copre i gagnolìi acuti e rauchi di Andromeda distesa là, poggiata sui gomiti ventre sotto, in faccia all’orizzonte, intenta a scrutare immemore il meccanismo dei flutti, dei flutti che nascono e muoiono a perdita d’occhi. Andromeda si geme addosso; geme e d’improvviso s’accorge che il suo gemere fa il paio col lamento del mare e del vento, due compari forti e scontrosi che neppure la degnano d’uno sguardo. Allora smette, brusca, poi cerca intorno, se c’è qualcuno con cui attaccare briga. Chiama:

       – Mostro!…

       – Pupa?…

       – Ehi mostro!

       – Pupa?

       – Si può sapere che stai lì a fare?

       Il Mostro-Drago accovacciato all’ingresso della sua grotta e col posteriore a mollo, si volta facendo brillare il dorso tempestato di tutti i preziosi delle Golconde sottomarine, alza con aria compassionevole le palpebre frangiate di cartilaginose passamanerie multicolori, scopre due vaste pupille d’un azzurro acquoso e dice (col tono di una persona a modo che ha avuto i suoi dispiaceri):

       – Lo vedi, Pupa, io spacco e levigo ciottoli per la tua fionda; avremo ancora qualche passo d’uccelli prima che vada giù il sole.

       – Smetti, questo rumore mi fa male. E non voglio più uccidere gli uccelli che passano. Che passino oh! e rivedano i loro paesi. – O voli migratori che passate senza vedermi, orde di flutti sempre in arrivo che smorite senza portarmi niente, come mi annoio! Stavolta sì che sto male… – Mostro?…

       – Pupa?

       – Dimmi un po’, perché da qualche tempo in qua non mi porti più delle gemme? Cosa ti ho fatto, eh, zietto?

       Il Mostro sfoggia un’alzata di spalle, raspa la sabbia alla sua destra, alza un ciottolo e afferra una manciata di perle rosa e di cristalli d’anemoni che teneva in serbo per qualche capriccio, quindi deposita il tutto sotto il nasino d’Andromeda. Andromeda, sempre ventre sotto e poggiata sui gomiti, sospira senza scomporsi:

       – Se rifiutassi con durezza, con inspiegabile durezza?

       Il Mostro si riprende il suo tesoro e lo spedisce giù alle natali Golconde sottomarine.

       E Andromeda a rotolarsi sulla sabbia, a gemere tirandosi i capelli sulla faccia in un disordine patetico:

       – Oh! le mie perle rosa, i miei cristalli d’anemoni! Oh! ne morirò, ne morirò! e sarà tua la colpa. Ah! tu non conosci l’Irreparabile!

       Ma si calma presto, per venire ad allungarsi strisciando, con abituale civetteria, sotto il mento del Mostro e con le bianche braccia gli circonda il collo, un collo di un viola viscido. Il Mostro sfoggia un’alzata di spalle e comincia a secernere, bonario, il musco selvatico per tutti i pori carezzati da quelle braccine di carne, le braccine della cara bimba che subito riprende a sospirare:

       – O Mostro, o Drago, tu dici di amarmi, e non puoi niente per me. Vedi che la noia mi consuma, e non puoi niente. Se tu potessi guarirmi, farmi qualcosa, come ti amerei! …

       – Nobile Andromeda, figlia del re d’Etiopia! Il povero mostro, Drago suo malgrado, non può risponderti che circonlocutoriamente: – Non ti guarirò se non quando mi amerai, perché è amandomi che tu mi guarirai.

       – Sempre il fatidico rebus! Ma se ti dico che ti voglio bene!

       – Non è che me lo fai sentire poi tanto. Ma lasciamo perdere; sono ancora un povero mostro di Drago, uno sventurato Catoblepa.

       – Volessi almeno prendermi in groppa e trasportarmi in mezzo alla gente. (Ah, come vorrei lanciarmi nel bel mondo!) Una volta là te lo darei davvero un bel bacetto in premio della tua fatica.

       – È impossibile, te l’ho già detto. Qui dovranno sciogliersi i nostri destini.

       – Oh dimmi, dimmi, che ne sai?

       – Non più di te, o nobile Andromeda dai rossi capelli.

       – I nostri destini i nostri destini! Ma se invecchio di giorno in giorno, io! No, non si può più andare avanti così!

       – E se facessimo una giterella in mare?

       – Le conosco le vostre gite! Sarebbe ora di trovare qualcosa di meglio.

       Andromeda torna a buttarsi ventre sotto sulla sabbia che graffia e raspa lungo i fianchi legittimamente affamati, poi ricomincia i suoi gagnolìi acuti e rauchi.

       Il Mostro, tanto per canzonare quella lagna sentimentale, imita il falsetto della povera bimba che sta cambiando voce, e attacca con aria indifferente:

       – Piramo e Tisbe. C’era una volta…

       – No! niente storie defunte o m’ammazzo!

       – Ma insomma che c’è! Bisogna reagire! Va a pesca, a caccia, infila delle rime, suona la buccina ai quattro punti cardinali, rinnova la tua collezione di conchiglie; o se vuoi, incidi dei simboli sulle pietre refrattarie (ecco un modo per passare il tempo)…

       – Non ce la faccio, ti dico che non ho più voglia niente.

       – Guarda, guarda! Pupa? guarda lassù. Oh! la vuoi la tua fionda?

       Dal mattino, era già il terzo stormo d’uccelli migratori autunnali; il loro triangolo passava con lo stesso palpito ben regolato, senza dispersioni. Passavano, e stasera sarebbero stati ben lontani…

       – Oh andare dov’essi vanno! Amare, amare!… grida la sventurata Andromeda.

       La piccola indemoniata è in piedi d’un balzo e urlando tra le raffiche sparisce a gran galoppo dietro le dune grige dell’isola.

       Il Mostro sorride bonario, poi riprende a levigare i suoi ciottoli; – a quel modo il savio Spinoza doveva lustrare le sue lenti.

II

       Come una bestiola ferita Andromeda galoppa, galoppa del fragile galoppo di un trampoliere in una regione di stagni; ancora più irata di dover ricacciare indietro, incessantemente, i suoi lunghi capelli rossi che il vento le incolla sulla faccia e sulla bocca. E dove va così, pubertà pubertà! nel vento e tra le dune, con questi abbai di bestiola ferita?

       Andromeda! Andromeda!

       I piedi perfetti nei sandali di lichene, con al collo un giro di coralli grezzi infilati in una fibra d’alga, ineccepibilmente nuda, inflessibile e nuda, è cresciuta così, tra galoppate e raffiche e soli e nuotate e notti all’addiaccio.

       La faccia, le sue mani, non sono più o meno bianche del resto del corpo; il suo fisico minuto, con una capigliatura di un rosso seta che casca fino ai ginocchi, ha la tonalità uniforme della terracotta lavata (Oh quei salti! quei salti!). Bene armata, ben molleggiata, tutta abbronzata questa pubertà selvatica, con tanto di gambe lunghe e sottili, coi fianchi dritti e fieri che si affinano in vita proprio sotto i seni, un petto infantile, due ombre di seni così inadeguati che il fiato, pur nel galoppo, li solleva appena (e quando e come avrebbero potuto formarsi, andando sempre così controvento, il vento salso che viene dal largo, e contro i getti furiosamente ghiacciati delle onde?) e il lungo collo, e la piccola testa infantile un po’ stravolta entro la cornice rossa, e gli occhi ora penetranti come quelli degli uccelli di mare ora smorti come le acque quotidiane… insomma una ragazzina compìta. Oh quei salti, quei salti! e quei gagnolìi di bestiola ferita avvezza ai disagi. Vi dico che è venuta su così, nuda e inflessibile e abbronzata, con tanto di chioma rossa, tra galoppate e raffiche e soli e nuotate e notti all’addiaccio.

       Ma dove va così, o pubertà, pubertà?

       Proprio in fondo, ecco una bizzarra scogliera a forma di promontorio; Andromeda la scala percorrendo un labirinto di rampe naturali: dalla stretta cengia essa domina l’isola e la mobile solitudine che la isola. Nel mezzo della cengia le piogge hanno scavato un catino che Andromeda ha lastricato di ciottoli di nero avorio che trattengono un’acqua pura; quello è il suo specchio, già da una primavera, e l’unico segreto che abbia al mondo.

       È la terza volta, oggi, che torna a rimirarsi. Non è che vi si specchi sorridendo, anzi fa il broncio, tenta di approfondire la gravità dei suoi occhi, e gli occhi non si staccano dalla loro profondità. Ma la sua bocca! non si stanca di adorare lo sbocciare innocente della sua bocca. E chi capirà mai la sua bocca?

       – Tutto sommato ho un’aria ben misteriosa! pensa tra sé.

       Si dà un mucchio di arie:

       – E poi ecco, sono io né più né meno; prendere o lasciare.

       E riflette che, tutto sommato, manca di distinzione!

       Ma ritorna ai suoi occhi. Ah! gli occhi sono belli, toccanti, e ben suoi. Non si stanca di conoscerli, resterebbe là a interrogarli fino alle ultime luci del giorno… E che cos’hanno che se ne stanno così infiniti? Perché lei non è un altro? passerebbe la vita a spiarli, a sognare il loro segreto, in silenzio!

       Ha un bel rimirarsi! Proprio come lei, il suo viso vive nell’attesa, serio e remoto.

       Allora se la prende con la sua capigliatura: prova una ventina di acconciature, ma alla fine esce sempre qualcosa di troppo pesante per la sua testolina.

       Ecco sopraggiungere dei nembi carichi di pioggia che alterano il suo specchio. Ha nascosto sotto una pietra una pelle di pesce seccata che le fa da lima per le unghie; si siede e si cura le unghie. Sopraggiungono i nembi che si lacerano in un frastuono di diluvio. Andromeda si precipita giù per la scogliera e riprende il galoppo alla volta del mare, pigolando sotto l’acquazzone:

       Ah! una panacea

       Alla bua d’Andromeda!

       Oh issa! Alla sua bua.

       La nenia è tanto triste che qualche lacrima cola sul seno infantile. E l’acquazzone è già passato e il vento le scompiglia i capelli, una raffica via l’altra…

              Oh issa!

       Nessuno mi viene in aiuto?

       Allora io mi butto!

              Oh issa!

       Ma non è che un’annaffiata, e corre a farsi una doccia di mare. Nell’atto di buttarsi ci ripensa: ancora e sempre il bagno! Non ne può più di giocare con le sorelle onde, grossolane, formosette, di cui conosce a sazietà la pelle e i modi. Ecco. Si stende di schiena sulla sabbia fradicia, le braccia in croce, di fronte all’irrompere dei flutti. Meglio così, non resta che attendere un bel cavallone; dopo un minaccioso va e vieni una voluta che s’impenna le salta addosso. La riceve da brava, a occhi chiusi, con un lungo singhiozzo agonizzante, e si dimena per trattenere con tutte le membra quel mobile guanciale diaccio che scorre e non le lascia niente tra le braccia…

       Si siede, inebetita, osserva le carni che grondano da far pietà, e monda la chioma dalle alghe che la doccia vi ha impigliato.

       Poi si butta risolutamente in acqua, schiaffeggia le onde a mulinello, si tuffa e risale e soffia e fa il morto; una nuova bordata sopraggiunge e la piccola ossessa, ecco, dopo il primo urto fa il salto della carpa e vuole inforcare la creste! Ne afferra una per la criniera e la cavalca per un attimo abbaiando selvaggiamente; ne sopraggiunge un’altra a tradimento, che la disarciona, ma Andromeda si aggrappa a un’altra ancora; e tutte le si ritraggono troppo svelte poiché non sanno aspettare. Il mare, che piglia gusto al gioco, diventa insostenibile; allora Andromeda come un relitto si lascia naufragare scarmigliata sulla sabbia, striscia fuori tiro dei flutti e resta ventre sotto, semisommersa tra le sabbie mutevoli.

       Una nuova falda d’acquazzoni trascorre sull’isola. Andromeda non si ritrae, gemendo pel fragore diluviale si piglia tutto l’acquazzone, l’uggiolante acquazzone che la solletica in un ribollìo lungo il filo della schiena. Sente che la sabbia inzuppata le cede sotto poco a poco e si dimena per sprofondare maggiormente. (Oh! ch’io sia sommersa, sia sepolta viva!)

       Ma quei nembi diluviali se ne vanno com’erano venuti, anche il rumore s’allontana, ed è la solitudine atlantica dell’isola.

       Andromeda si mette seduta a guardare l’orizzonte, l’orizzonte che schiarisce senza un che d’insolito. E adesso? una volta che il vento l’ha asciugata per benino, essa corre col fiato corto a scalare di bel nuovo la scogliera promontorio dove almeno un barlume d’intelligenza l’attende.

       Ma la brutta pioggia ha alterato la fattura del suo povero specchio.

       Andromeda si scosta, sta per scoppiare in singhiozzi quando un grande uccello di mare si avvicina a vele spiegate, dritto sull’isola, puntando verso la scogliera, magari destinato a lei! Lancia a richiamo un pigolìo prolungato, e s’accascia a ridosso della roccia con le braccia in croce, e chiude gli occhi. Ah! piombasse quell’uccello sul suo esserino prometeico esposto là per volere degli dei, e appollaiato sulle sue ginocchia la frugasse dentro con un becco salutare, implacabile, fino a estrarle il nòcciolo ardente della sua bua!

       Avverte invece il volo del grande uccello che passa: è già lontano, quando riapre gli occhi, ansioso certo di carogne ben più eccitanti.

       Povera Andromeda che non sa proprio da che parte abbordare il suo essere per esorcizzarlo.

       E ora? non resta che ricontemplare il mare così limitato e tuttavia così unicamente aperto alla speranza… E ancora, un ben puerile tormento è il suo se confrontato a quella solitudine a perdita d’occhi! Con una sola ondata il mare può appagarla a morte; ma lei, piccola carne gracile, come può pensare di appagarlo e di scaldarlo il mare?! Come se bastasse allungare le braccia… Del resto, poi, si sente così stanca! Una volta sì che galoppava tutto il giorno nel suo regno, ma oggi con le palpitazioni di cuore… Un altro di quei grandi uccelli di mare che passa. Vorrebbe tanto adottarne uno, cullarlo! Non uno che faccia sosta sull’isola. Bisogna ucciderli a colpi di fionda per vederli davvicino.

       Cullare, essere cullata; il mare non è che la culli tanto dolcemente.

       È caduto il vento, ed è la bonaccia; l’orizzonte s’appresta alla cerimonia del tramonto e fa tabula rasa, in vena di malinconia.

       Cullare, essere cullata!… E la testolina stanca di Andromeda si riempie di ritmi materni; le ritorna il solo ritmo umano che conosca, una leggenda: «La verità intorno al caso Tutto», poemetto sacro con cui il Drago, suo custode, le cullò l’infanzia.

       «In principio era l’Amore, legge universale, centro in cosciente, infallibile. Nient’altro che l’aspirazione infinita all’Ideale, immanente ai turbinii solidali dei fenomeni.

       «Chiave di volta per la Terra, sua Cisterna, sua Sorgente è il Sole.

       «Ecco perché il mattino e la primavera s’addicono alla gioia, perché il crepuscolo e l’autunno s’addicono alla morte. (Ma dato che non c’è niente di più esaltante per un organismo superiore del sentirsi morire pur sapendo che non è vero, il crepuscolo e l’autunno, il dramma del sole e della morte sono in massimo grado estetici).

       «L’impulso dell’Ideale è dato da sempre e da sempre, nello spazio infinito, va oggettivandosi in innumeri mondi che si formano e organicamente si evolvono nel modo più elevato che gli elementi loro consentano, per disgregarsi poi in nuove gestazioni da laboratorio.

       «Unica preoccupazione dell’incosciente iniziale è di salire più in alto, preso com’è dalle sue cure particolari ch’esso tiene sotto controllo in altri mondi più vivaci e più seri; niente lo saprebbe distrarre dal suo sogno futuro.

       «E i pianeti, che avendo già percorso l’evoluzione propria all’Incosciente non hanno fondamento sufficiente per servire da laboratorio all’Essere futuro, sono dall’Incosciente trascurati; le loro piccole evoluzioni si fanno fatalmente, sulla scorta dell’impulso già dato, come altrettante prove idem e trascurabili d’un modello acquisito e arcinoto.

       «Ordunque, allo stesso modo che l’evoluzione fatale dell’umanità nel grembo della madre è una miniatura riflessa dell’intera evoluzione terrestre, l’evoluzione terrestre non è che una miniatura riflessa della Grande Evoluzione Incosciente nel Tempo.

       «Altrove, altrove, negli spazi infiniti l’Incosciente è più progredito. Che feste!…

       «La Terra, dovesse anche produrre degli esseri superiori all’Uomo, non è che una prova idem e trascurabile d’un modello d’apprendimento.

       «Ma la buona Terra originata dal Sole per noi è tutto, dotati come siamo di cinque sensi cui tutta la Terra risponde. O succulenze, stupori plastici, fragranze, strepiti, sorprese a perdita d’occhi, Amore! O vita mia di me!

       «L’Uomo non è che un insetto sotto i cieli; fate che egli si rispetti e può essere davvero Dio. Uno spasimo della creatura vale l’intera natura».

       Tale è il salmodiare uggioso di Andromeda dinnanzi a un’altra sera che cala; e non conosce altra dolcezza che la lezione appresa. Ah! essa si stira e geme.

       Ah! fino a quando continuerà a stirarsi e a gemere?…

       Con voce alta e intelliggibile, nella solitudine atlantica della sua isola, essa dice:

       – Sì, ma dal momento che ignoro quale sesto senso sconosciuto vuole schiudersi, e che niente, niente gli risponde! Ah! – Gratta gratta, la verità è ch’io sono troppo sola, troppo appartata, e che non so proprio come tutto questo andrà a finire.

       Si accarezza le braccia, e dall’esasperazione digrigna i denti, si graffia e si sfregia appena con una scaglia di silice a portata di mano.

       – O dei! non posso mica togliermi la vita tanto per provare!

       Piange.

       – No, no! Mi si trascura troppo! Anche se ora venissero a cercarmi per portarmi via… ma io serberei rancore tutta la vita, serberei sempre un po’ di rancore.

III

       Un’altra sera che cala, un bel tramonto in mostra; bilancio classico! bilancio più che classico!…

       Andromeda butta indietro la sua rossa capigliatura e riprende il cammino di casa.

       Il Mostro non le viene incontro. Cosa significa? Il Mostro non c’è più! Lo chiama:

       – Mostro! Mostro!…

       Nessuna risposta. Suona la buccina. Niente. Fa ritorno alla scogliera che domina l’isola e suona e chiama, Dio mio!… Nessuno. Torna a casa.

       – Mostro! Mostro!… – Che disastro! si fosse inabissato per sempre, fosse partito lasciandomi sola, con la scusa che l’ho tormentato troppo, che gli ho reso la vita impossibile?…

       Nella sera che cala, l’isola le appare incredibilmente, impossibilmente perduta! Si butta sulla sabbia davanti alla grotta e geme geme, geme che vuol lasciarsi morire, che doveva aspettarselo…

       Quando si rialza, il Mostro è là, nella solita melma, intento a bucare una di quelle buccine con cui le fabbrica delle ocarine.

       – To’ eccovi, dice. Vi credevo partito.

       – Dio me ne guardi. Fin che vivo sarò il vostro carceriere senza macchia e senza paura.

       – Come dite?

       – Dico che fin che vivo…

       – Bene bene; lo sappiamo.

       Silenzio e orizzonte; l’orizzonte dei mari è bell’e sgombro per il tramonto.

       – Se giocassimo a dama, sospira Andromeda visibilmente irritata.

       – Giochiamo a dama.

       Una scacchiera a mosaici neri e bianchi è incrostata sulla soglia della grotta. La partita ha inizio e già Andromeda scompiglia tutto, visibilmente irritata.

       – È impossibile, perderei; non ho la testa. Mica ne ho colpa. Sono irritata e lo si vede.

       Silenzio e orizzonte! Dopo tutte le follie del pomeriggio l’aria è ferma, come racconta in attesa della classica ritirata dell’Astro.

       L’Astro! …

       Laggiù all’orizzonte rutilante dove le sirene trattengono il fiato,

       salgono le impalcature del tramonto,

       di faro in faro si dispongono a terrazze le murature di scena;

       i pirotecnici danno gli ultimi ritocchi;

       sbocciano lune d’oro in serie, tanti bocchini di trombe allineate da cui fulminassero falangi di araldi!

       Il mattatoio è pronto, si ripiegano i paramenti;

       su lettighe di diademi, sulle messi di lampioncini veneziani e di caligini e di covoni,

       arginate da barriere in similoro messe a sacco,

       l’Astro Pascià

       Sua Eminenza Rossa

       in zimarra di rovine

       cala, mortalmente trionfale

       per interi minuti attraverso la Porta Sublime!

       Eccolo che giace su un fianco, venato di stigmate atrabiliari.

       Svelto, qualcuno spinge giù con un calcio quella zucca fessa, e allora!…

       Addio, finita la festa!…

       L’allineamento di trombe s’abbassa, le difese crollano coi loro fari di boccioni prismatici! I cimbali volano via, i cortigiani inciampano negli stendardi, le tende vengono ripiegate, l’esercito leva il campo portandosi dietro nel panico le basiliche occidentali, i torchi gl’idoli i fagotti le vestali gli uffici le ambulanze le cantorie delle fanfare e tutti gli accessori di rito.

       Per stemperarsi in uno spolverìo rosa aureo.

       Insomma, è andate tutto a meraviglia!…

       – Favoloso, favoloso! sbava in estasi il Mostro Taciturno, e le sue vaste pupille acquose brillano ancora degli ultimi riflessi occidentali.

       – Addio, finita la festa! sospira crepuscolarmente Andromeda, la cui rossa capigliatura sembra ben povera cosa dopo quegli incendi.

       – Non resta che accendere i fuochi della sera, cenare, e benedire la luna prima di andare a letto, per svegliarsi l’indomani e ricominciare una giornata uguale.

       Orsù, silenzio e orizzonte pronti per la funerea luna… allorché! – Oh! benedetti gli dei che inviano proprio al momento giusto un terzo personaggio.

       Arriva come un razzo l’eroe adamantino su un Pegaso di neve le cui ali fremono tinte dai tramonti, nitidamente riflesso nel pur vasto specchio malinconico dell’atlantico delle belle sere!…

       Non c’è alcun dubbio, è Perseo!

       Andromeda, soffocata da acerbi palpiti, corre a rannicchiarsi sotto il mento del Mostro.

       E delle grosse lacrime spuntano sulle ciglia del Mostro, come dei doppieri sulle balaustre. Parla con una voce che non gli conoscevamo affatto:

       – Andromeda, nobile Andromeda, rassicurati, è Perseo. È Perseo, figlio di Danae d’Argo e di Giove tramutato in pioggia d’oro. Viene per uccidermi e rapirti.

       – Mannò che non ti ucciderà!

       – Mi ucciderà.

       – Non ti ucciderà se mi ama.

       – Non può portarti via che uccidendomi.

       – Mannò, ci metteremo daccordo, ci si mette sempre daccordo. Aggiusterò tutto io.

       Andromeda ha lasciato il suo posto abituale e guarda.

       – Andromeda, Andromeda! pensa al valore della tua carne unica, pensa al valore della tua anima schietta; un mispatto coniugale è così presto consumato!

       Figurarsi se quella sta a sentire! La faccia protesa, i gomiti incollati al corpo, le dita contratte sulle anche, è piantata là sulla riva del mare, femminilmente, in atto di sfida.

       Prodigioso e d’un gusto raffinato, Perseo s’avvicina con un batter d’ali più lento dell’ippogrifo; – più s’avvicina più Andromeda si sente provinciale; e delle sue braccia incantevoli non sa proprio che farsene.

       Giunto a qualche metro d’Andromeda, l’ippogrifo si ferma con un garbo perfetto, piega le ginocchia a sfiorare i flutti, pur sostenendosi con un roseo fremito d’ali; e Perseo fa un inchino. Andromeda risponde d’un cenno del capo. Ecco dunque il suo fidanzato. Quale sarà il suono della sua voce, e la sua prima parola?

       Védilo che riparte senza una parola e avendo preso quota compie di slancio delle ellissi passando e ripassandole davanti, caracollando sul filo del mare – prodigioso specchio! diminuendo via via le sue orbite su Andromeda, quasi volesse dare all’acerba vergine il tempo di ammirar lo e di desiderarlo. Un ben curioso spettacolo in verità!…

       Stavolta, sorridendo, le è passato così vicino che avrebbe potuto toccarlo!

       Perseo monta all’amazzone incrociando vezzosamente i piedi calzati da sandali di bisso; uno specchio sta appeso all’arcione della sella; è imberbe, la bocca rosa atteggiata al sorriso potrebbe definirsi una melagrana spaccata, sull’incavo del petto è laccata una rosa, le sue braccia sono tatuate d’un cuore trafitto da una freccia, ha un giglio dipinto sul grosso dei polpacci, porta un monocolo di smeraldo, anelli e bracciali in gran copia; dal balteo dorato pende uno spadino con l’elsa di madreperla.

       Perseo ha sul capo l’elmo di Plutone che rende invisibili, ha le ali e i calzari di Mercurio e lo scudo divino di Minerva, dalla cintura penzola la testa della Gòrgone Medusa alla cui sola vista, è risaputo, il gigante Atlante si cangiò in montagna; il suo ippogrifo è quel Pegaso che cavalcava Bellerofonte quando uccise la Chimera. Un giovane eroe dall’aria maledettamente sicura.

       Il giovane eroe ferma l’ippogrifo davanti a Andromeda e senza smettere di sorridere con quella bocca di melagrana spaccata, traccia una serie di mulinelli con la sua spada adamantina.

       Andromeda resta inchiodata, l’incertezza la dispone al pianto, quasi non d’altro in attesa che del suono della voce di quel personaggio per abbandonarsi al destino.

       Il Mostro fa la cuccia in disparte.

       Con eleganza e senza turbare lo specchio d’acqua, Perseo compie un volteggio e la cavalcatura s’inginocchia davanti a Andromeda presentando il fianco; il giovane cavaliere fa delle sue mani staffa e inclinandole verso la giovane reclusa dice con un’erre incurabilmente grassa:

       – Su, òp! a Citera!

       Finiamola una buona volta! Andromeda ha già il piede ruvido in quella staffa delicata quando si volta per dire addio al Mostro. – Ma ecco che costui si getta sotto l’ippogrifo e riappare inalberato in mezzo a loro, le due zampe in resta, spalancando l’antro violaceo della gola che getta un dardo di fiamma! L’ippogrifo s’impenna, Perseo indietreggia per avere più campo, gridando smargiassate. Il Mostro le raccoglie, Perseo si fa sotto e subito s’arresta:

       – Ah! non ti darò la soddisfazione di scannarti in sua presenza, grida; fortuna che gli dei giusti hanno messo più d’una corda al mio arco. Io… ti meduso io!

       Il mignoncello degli dei sgancia dalla sua cinta la testa della Gòrgone.

       Recisa al collo, la famosa testa è viva ma viva di una vita stagnante e avvelenata, nera d’apoplessia repressa, gli occhi bianchi e iniettati sono fissi, e fisso il rictus di decollata; tutto di lei è fermo tranne la capigliatura di vipere.

       Perseo l’impugna per quella chioma i cui nodi blu screziati d’oro gli fanno dei nuovi bracciali, e la presenta al Drago mentre grida a Andromeda: – Voi, giù gli occhi!

       O prodigio! l’incantesimo non s’avvera.

       Non vuole avverarsi, l’incantesimo!

       La Gòrgone, di fatto, con uno sforzo inaudito ha chiuso i suoi occhi petrificanti.

       La buona Gòrgone ha riconosciuto il nostro Mostro. Ricorda bene i ricchi tempi pieni di brezze quando con le sue due sorelle frequentava quel Drago, già guardiano del giardino delle Esperidi, del meraviglioso giardino delle Esperidi, sito nei pressi delle Colonne d’Ercole. No, mille volte no, non sarà lei che petrificherà un vecchio amico!

       Perseo attende sempre, a braccio teso, ignaro di tutto. Il contrasto tra il gesto valoroso e magistrale che ha assunto e il suo fallimento ha del grottesco; e la selvatica piccola Andromeda non ha potuto trattenere un sorrisetto; sorrisetto che Perseo sorprende! L’eroe stupisce, ma che succede alla sua buona testa di Medusa? Benché l’elmo, in fondo, lo renda invisibile, non è senza timore che s’azzarda a guardare in faccia la Gòrgone, per sincerarsi dell’accaduto. Lapalissiano; l’incantesimo petrificante non ha operato perché la Gòrgone ha chiuso gli occhi.

       Furibondo, Perseo riaggancia la testa, brandisce la spada con un ghigno da vincitore e serrando sul cuore lo scudo divino di Minerva, dà di sprone (oh! giusto nel mentre laggiù la luna piena si alza sul prodigioso specchio atlantico!) e s’avventa contro il Drago, povera massa orba di ali. L’accerchia con smaglianti volteggi, gli dà di picca a dritta e a manca poi lo costringe a ridosso d’un anfratto e lì gli affonda così mirabilmente la spada nel mezzo della fronte, che il povero Drago s’affloscia, appena in tempo per rantolare spirando:

       – Addio, nobile Andromeda, ti amavo, e con delle prospettive, solo che tu l’avessi voluto; addio, ci penserai spesso.

       Il Mostro è morto. Malgrado l’infallibilità della vittoria Perseo è troppo eccitato e vuole infierire sul defunto; lo lardella lo sfregia gli fora gli occhi e lo massacra! finché Andromeda non lo ferma.

       – Basta basta, vedete bene che è morto.

       Perseo appende la sua spada al balteo, ricompone i riccioli biondi della sua chioma, ingoia una pasticca e scendendo dalla sua cavalcatura, di cui carezza il collo:

       – E ora, bellezza mia! dice con voce melassata.

       Andromeda, che è rimasta sempre là, ineccepibilmente e inderogabilmente nuda coi suoi neri occhi alcionici, chiede:

       – Voi mi amate, mi amate veramente?

       – Se vi amo? Ma vi adoro! senza di voi la vita mi sarebbe intollerabile e piena di tenebre! Se ti amo! ma guardati dunque!

       E le allunga il suo specchio; Andromeda con aria esterrefatta rifiuta soavemente quella bigiotteria. Lui non ci fa caso, anzi s’affretta a aggiungere:

       – Ah! questo però sì, bisognerà che ci facciamo belle!

       Cava di dosso uno dei suoi collari, un collare di monete d’oro (ricordino di nozze di sua madre) e vuole infilarglielo al collo. Essa lo respinge dolcemente ma lui approfitta di quel gesto per cingerle a due mani la vita. L’animaletto ferito si risveglia! Andromeda manda un grido, il grido dei gabbiani nei momenti più neri, un grido che risuona sull’isola tutta buia:

       – Non mi toccare!… – Oh scusate, scusate, ma in verità tutto è accaduto così in fretta! Vi prego, lasciate ch’io vaghi ancora un po’ sola, ch’io dica un ultimo addio ai luoghi…

       Si scosta per abbracciare con un gesto l’isola, e la cara scogliera su cui cala la notte, una vera notte, oh! vera per tutta la vita! così vera e inafferrabile che Andromeda subito se ne distacca per affrontare colui che viene a strapparla al suo passato, che rappresenta il suo mi-gioco-tutto. Ma ecco che lo sorprende! Sbadigliava! uno sbadiglio compassato che si sforza di tramutare in un sorriso di melagrana spaccata.

       O notte sull’isola del passato! Mostro vilmente ucciso, Mostro senza sepoltura! Paesi troppo eleganti di un domani… Andromeda non ha che un grido:

       – Andatevene! andatevene! Mi fate orrore! Meglio morire sola, andatevene, avete sbagliato indirizzo.

       – Ah! bene, bei modi questi! Piccola mia, sappiate che i miei pari un ordine del genere non se lo fanno dare due volte. E non è che siate poi un campione di raffinatezza…

       Traccia un mulinello con la sua spada adamantina, si rimette in sella e fila via senza voltarsi nell’incanto dell’aurora lunare; lo si sente che tuba un’aria tirolese; fila via come una meteora, dilegua verso contrade eleganti e facili…

       O notte sulla povera isola di sempre!… Quale sogno!…

       Andromeda se ne sta lì a testa bassa, inebetita davanti all’orizzonte, al magico orizzonte rifiutato, che non ha neanche potuto rifiutare, o dei che la forniste d’un cuore così grande!

       Essa va dal Mostro, che giace sempre nel suo angolo, esanime, livido e flaccido, l’infelice. Valeva proprio la pena! …

       Come sempre, va a rifugiarsi sotto il suo mento, ora senza vita e che deve sollevare per allacciargli il collo con le sue braccine. È ancora tiepido. Incuriosita, alza con l’indice una palpebra, la palpebra scopre un globo spaccato e ricade. Scosta le ciocche della criniera e conta i fori sanguinanti che gli ha fatto l’orribile spada di diamante. Delle lacrime scorrono silenziose, lacrime di passato e d’avvenire. Come la vita era ancora bella con lui in quell’isola! E nel passargli con un gesto meccanico la mano tra le ciglia essa ricorda. Ricorda come le fosse amico, gentiluomo perfetto, scienziato ingegnoso, poeta eloquente. E il suo cuoricino scoppia in singhiozzi mentre essa si agita sotto il mento inerte del Mostro non apprezzato abbastanza e gli stringe il collo e troppo tardi ormai lo scongiura.

       – Oh! povero, povero Mostro! M’avessi detto tutto a suo tempo! non saresti morto qui, per mano d’uno stupido eroe d’operetta. E io così sola nella notte! Avremmo avuto ancora dei bei giorni. Potevi capirlo da te che la mia non era che una crisi passeggera, quel languore, quella curiosità fatale. Oh! curiosità tre volte funesta! Oh! Ho ucciso il mio amico, ho ucciso il mio unico amico! Il mio paterno nutritore, il mio precettore. Di che lamenti potrei far risuonare queste rive insensibili ormai? Nobile Mostro: – Addio, Andromeda, ti amavo e con delle prospettive, solo che tu l’avessi voluto! furono le sue ultime parole. – Ora sì che capisco la gravità della tua anima grande! e i tuoi silenzi e i tuoi pomeriggi e tutto! Troppo tardi, troppo tardi! Ma senza dubbio questo era il volere degli dei. O dei di giustizia, prendete la metà della vita di Andromeda, prendete la metà della mia vita e rendetemi la sua, che io lo ami e lo serva d’ora in poi con fedeltà e con grazia. O dei, fate questo per me, voi che mi leggete nel cuore e sapete quanto, in fondo, io l’amassi, anche se obnubilata da fugaci capricci dell’età, io che non ho mai amato altri che lui, che l’amerò in eterno!

       E lo sboccio della bocca della nobile Andromeda trascorre lieve sulle palpebre chiuse del Drago. A un tratto si ritrae!…

       Perché ecco che alle sue parole fatidiche, a quei baci redentori il Mostro trasale, apre gli occhi, piange in silenzio e la guarda… Poi parla:

       – Nobile Andromeda, grazie. I tempi della prova sono finiti. Io rinasco, sto rinascendo a dovere per amarti; e non una parola né un istante siano in grado di definire la tua felicità. Impara piuttosto a conoscere me e il mio destino. Ero della stirpe maledetta di Cadmo votata alle Furie! Predicavo la derisione dell’essere e la deità del nulla nei boschi d’Arcadia. Per punirmi, gli dei della vita mi cambiarono in Drago dannandomi, in queste sembianze, alla sorveglianza dei tesori della terra fino al giorno in cui una vergine mi amasse, me Mostro, per me stesso. Drago a tre teste, custodii dapprima a lungo i pomi d’oro del giardino delle Esperidi; Ercole sopraggiunse e mi sgozzò. Successivamente passai in Colchide, dove sarebbe approdato il Vello d’Oro. Sull’ariete dal vello d’oro giungevano il tebano Frisso e sua sorella Elle. Un oracolo m’aveva fatto intendere che Elle era la vergine promessa. Ma annegò in viaggio legando il suo nome allo stretto dell’Ellesponto. (Seppi poi che non era un granché). Vennero allora quegli strani Argonauti, come non se ne vedrà più!… Splendore di un’epoca! Giasone era il loro capo, quindi veniva Ercole, e il suo amico Teseo, e Orfeo che si vantava d’incantarmi con la sua lira (e che doveva fare più tardi una così brutta fine!) e ancora i due Gemelli: Castore, domatore di cavalli e Polluce eccelso nel pugilato. Epoche svanite!… Oh! i loro bivacchi, i fuochi che accendevano nelle sere! – Dovevo finire sgozzato ai piedi del Vello d’Oro del Santo Graal, vittima dei filtri di Medea, arsa d’amore folle pel sontuoso Giasone. E vennero altri cicli: ho conosciuto Eteocle e Polinice, e la pia Antigone, e il perfezionarsi degli armamenti che segnò la fine dei tempi eroici. Da ultimo, la bizzarra e opprimente Etiopia e tuo padre e te, o nobile Andromeda, Andromeda la più bella di tutte, a cui devo di poterti rendere tanto felice che non ci sarà né una parola né un istante in grado di definire la tua felicità.

       Com’ebbe terminato quel mirifico discorso il Drago, senza preavviso, ecco che si muta in un giovanotto a modo. Affacciato all’ingresso della grotta, con la sua pelle umana inondata dagli incantesimi lunari, parla dell’avvenire.

       Andromeda non osa riconoscerlo e si gira appena, sorridendo nel vuoto, con uno di quei moti fascinosi di tristezza forieri in lei dei più impensati colpi di testa (la sua anima è così facilmente soggetta allo sconforto…).

       Ma bisogna pur vivere, e viverla questa vita, perquanto si debba tenere gli occhi bene aperti a ogni sua svolta.

       L’indomani di quella notte essenzialmente nuziale, ricavarono una piroga da un tronco d’albero e la misero in mare.

       Vogarono, evitando le coste disseminate di casinò. Oh! viaggio di nozze sotto il sole come al sereno!

       Il terzo giorno approdarono in Etiopia dove regnava l’inconsolabile padre di Andromeda (lascio immaginare la sua gioia).

       – Ah questa poi, mio caro signor Amyot d’Epinal, ce la racconta bella! esclamò la principessa d’U. E. accomodando appena lo scialle perché la notte, splendida, s’annunciava fresca. E io che avevo disposto ben altrimenti il mio animo all’avventura di Perseo e Andromeda! e quel povero Perseo come me l’avete conciato! (Vi perdono solo pel tocco da maestro con cui m’avete adulato all’antica, sotto i tratti d’Andromeda). Ma lo scioglimento della storia! Che è questo Mostro a cui nessuno finora aveva mai prestato attenzione? E poi, caro signor Amyot d’Epinal, alzi un po’ gli occhi verso la carta celeste della notte. Quella coppia di nebulose laggiù, vicino a Cassiopea, non si chiama forse Perseo Andromeda? mentre invece là in fondo, quella fila sinuosa di stelle, con la sua aria umile, non è la costellazione del Drago, che vivacchia tra l’Orsa Maggiore e l’Orsa Minore, zoticone della stessa razza?…

       – Cara U…, questo non prova niente. I cieli sono sereni e convenzionali; tanto varrebbe dire che i vostri occhi sono semplicemente castani (voi non lo vorreste). No, perché – vedete – allo stesso modo, dall’altra parte laggiù verso la Lira, che è la mia costellazione, non c’è forse il Cigno, che è la costellazione di Lohengrin ed è disposto a croce in ricordo di Parsifal? Ammetterà pure che io e la mia Lira non abbiamo niente da spartire con Lohengrin e con Parsifal?

       – È vero, parabolicamente vero. Ma non c’è mai modo di discutere e d’istruirsi con lei. Via, rientriamo a prendere il tè. A proposito, e la morale? dimentico sempre la morale…

       – Eccola:

Ragazze mie, prima di rifiutare un mostro

Pensateci su due volte, date retta a me.

Così come la nostra storia lo dimostra

Il poveraccio era il più meritevole dei tre.

 

 

Jues Laforgue, da “Moralità leggendarie. Amleto ovvero Le conseguenze della pietà filiale”, 1987 (Traduzione di Nelo Risi)

 

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Nell’immagine: Quella che viene considerata la prima rappresentazione dell’Amleto di William Shakespeare. Attribuita a Domenico Brugieri, è databile forse al 1722

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