Magazzino Memoria

Il campo di Płaszów

30.01.2023

Dopo la deportazione di ottobre, si sentì per la prima volta parlare dell’istituzione di un campo sul sito di un antico cimitero ebraico, a Płaszów. Diverse decine di operai polacchi erano all’opera ogni giorno per livellare il terreno. Tempo dopo furono adibiti ai lavori anche alcuni ebrei. I sepolcri più preziosi, soprattutto quelli in marmo nero, vennero rimossi e accantonati. Iniziò il trasporto di legname da costruzione per le baracche, la posa di fognature, lo scavo di un pozzo. Tutto il territorio sul quale lavoravano gli operai venne circondato da pali e filo spinato; si innalzarono le torrette di guardia tipiche dei campi di concentramento.
La gente cominciò ad arrovellarsi, a domandarsi: «Per chi mai saranno quelle baracche?». Il ghetto fu nuovamente sommerso da un diluvio di voci e di supposizioni. Le fonti tedesche più “degne di fede” assicuravano che il tutto era destinato a polacchi. Altri parla-
vano di ebrei provenienti dalla Francia e dall’Ungheria. Altri ancora dicevano che vi sarebbero stati acquartierati i giovani di Cracovia. Ma intanto si poteva osservare il diffondersi di un disgusto misto a indifferenza come era accaduto dopo la deportazione di ottobre.
Il novembre del 1942 portò con sé ben altre notizie: il campo in costruzione a Płaszów era destinato agli ebrei di Cracovia, il ghetto aveva i giorni contati e la sua sorte era definitivamente segnata. La gente era tesa e al tempo stesso indifferente. Piovevano interrogativi, uno sull’altro: «Che ne sarà di me? Dei miei cari? Dei miei figli?».
Alcuni sprofondarono nella psicosi, altri in un’inquietudine, in un nervosismo estremo, in pensieri assillanti. Altri ancora si persero in un marasma spirituale, incapaci di riflettere, di formulare qualsiasi previsione sul loro futuro prossimo.
«Dottore», mi disse uno dei frequentatori della farmacia, indicandomi la finestra che dava su piazza Zgody, «mi dica: come mai ci sono così pochi pazzi in giro dopo tutto quello che la gente ha dovuto sopportare? Possono le cellule grigie del nostro cervello
reggere così tanto dolore? In fondo, prima della guerra i matti non mancavano, ma che mai potevano aver sofferto, quelli, in confronto alle nostre tragedie, alla nostra infelicità?»
E dopo un momento, aggiunse: «Che cosa pensa che accadrebbe se, a un tratto, diciamo oggi stesso, finisse la guerra? Queste persone, ritrovando la libertà, diventerebbero tutte matte? Molto spesso penso che sarebbe proprio così, ma in verità, non so… Sono fortunato a non avere nessuno, a essere solo al mondo. E tuttavia non sono indifferente alla gente che mi circonda, mi sono abituato a queste persone, ho cominciato ad amare i loro figli, sono diventate parte della mia famiglia. Com’è strano tutto questo!».
Certamente nell’animo di chi era ancora vivo in quel tempo riluceva una fiammella di speranza: resistere! In ciascuno persisteva il pensiero che forse qualcuno dei suoi cari, tra i deportati, per un miracolo sarebbe sopravvissuto.
Un amico è sopravvissuto alla guerra ed è tornato a trovarmi: «Non mi sento felice nella piena accezione del termine», mi ha detto con voce spenta. Nello stringermi la mano, mi ha guardato a lungo negli occhi e mi ha detto, uscendo, che non mi avrebbe mai dimenticato e mi avrebbe scritto non appena si fosse sistemato stabilmente da qualche parte. Si è accomiatato, è andato via, ma non mi ha mai scritto.
In quelle condizioni, quando si erano persi i propri cari e si restava soli, le ferite, anche le più dolorose, con il passare del tempo cominciavano a cicatrizzarsi. E chi, ancora poco prima, si lamentava dicendo che non avrebbe mai più fondato una famiglia, che non si sarebbe mai più legato a qualcuno per il resto della sua vita, dopo la guerra cambiò parere e prese a cercare un partner con cui stringere un nuovo vincolo matrimoniale.
La vita è più forte di qualsiasi risoluzione.
Perfino nel ghetto, subito dopo quelle terribili prove, coloro che erano restati in vita cercavano qualcuno con cui condividere l’esistenza, e i rabbini consacravano, clandestinamente, sempre nuovi legami.
Ma nel ghetto l’Arbeitsamt compilava i suoi schedari, si creavano nuovi laboratori e si diceva che alcuni isolati sarebbero stati destinati ad alloggiare persone assunte da questi laboratori perché non dovessero uscire e rientrare ogni giorno. E del resto era sempre più difficile uscire dal ghetto per andare in città. Ottenere un lasciapassare, anche mediante una buona mancia,
era sempre più arduo; tutti avevano paura di tutti, nessuno si fidava più di nessuno. E intanto i lavori di costruzione del campo di Płaszów procedevano.
Nel novembre del 1942, dopo la deportazione, si provvide a ridurre ulteriormente il ghetto. Divenne chiaro perché questa decisione fosse stata rinviata nel mese di ottobre. Alcune strade vennero escluse dal ghetto: il lato sinistro di via Lwowska, via Dąbrowski,
via Jan Wol. Agli abitanti furono concesse ventiquattr’ore per traslocare. Si ripeterono scene inimmaginabili, terrificanti. Il pigia pigia era inverosimile. Una sola stanza fu assegnata a diverse famiglie male assortite, il che rese l’atmosfera ancora più pesante, stroncando la resistenza nervosa della gente, facendola impazzire. Furono liti continue sulla quantità di oggetti portati con sé, sullo
spazio occupato, sulla cucina. Chi doveva occuparsi del fuoco? Come mettere in comune il carbone? Chi aveva più – o meno – diritto a quell’alloggio? Erano questi i tristi argomenti di discussioni quotidiane. Per la prima volta fu consentito, in via eccezionale, di traslocare anche durante la notte. Fin dalla sera il ghetto fu completamente illuminato. L’agitazione era immensa nell’andirivieni di colonne interminabili di persone cariche di suppellettili. Intanto, operai ebrei delimitavano i nuovi confini del ghetto; anche questa volta non si costruirono muri, ma si piantarono pali, tra i quali veniva teso il filo spinato. Questo tipo di recinzione avvalorava il sospetto di una prossima liquidazione.
Le abitazioni minacciavano di crollare sotto il peso di tutti quei mobili che vi si accumulavano; nei cortili sorsero veri e propri labirinti di armadi, credenze, comodini. Sui balconi e nei corridoi si ammassarono bauli, casse, anticaglie. Non c’è da sorprendersi se nella confusione si perdeva sempre qualcosa. Ogni giorno capitava che qualcuno aprisse una valigia o sballasse una cassa altrui. Qui spariva il carbone, lì un lenzuolo, là le provviste. La vita diventò mostruosa, un vero incubo.
La convivenza si fece sempre più difficile. A volte, con tante famiglie in un solo appartamento, la cucina in comune si trasformava in pomo della discordia. In momenti di tensione estrema mi è capitato di sentire frasi come «Hitler sapeva bene come vendicarsi degli
ebrei. Ha creato questo ghetto e ci ha ficcato dentro tutta questa gente!». Anche scaldare una stanza occupata contemporaneamente da diverse persone era motivo di conflitto: c’era chi rifiutava di pagare la sua quota per il carbone dicendo di aver caldo, di non aver
bisogno del riscaldamento. Questo genere di controversie esasperava le persone. So di un caso in cui gli inquilini di un appartamento si intestardirono a tal punto che gelarono per tutto l’inverno con la cantina piena di carbone. Anche i mobili costituivano motivo di attrito. Al momento di traslocare ognuno ne aveva voluto portare con sé il più possibile. Ma l’esiguità degli spazi non consentiva di sistemarne neppure una parte. Chi arrivava per primo collocava la maggior parte della sua mobilia; gli altri, poi, dovevano lottare per avere un po’ di spazio, e si lamentavano e imprecavano. La meschinità e l’attaccamento agli oggetti si manifestano anche nei momenti più penosi della vita.
Le Kennkarten vennero annullate e, a partire da quel momento, il documento di identità degli ebrei si chiamò Judenpass.
Alla data stabilita la riduzione del ghetto era compiuta, i traslochi terminati. Giocoforza un’enorme quantità di oggetti rimase al suo posto. Sugli appartamenti abbandonati con tutti gli arredi dai deportati furono apposti i sigilli. Polizia tedesca e poliziotti blu presero servizio nelle strade spopolate che non facevano più parte del ghetto.
Squadre speciali composte di lavoratori ebrei dell’Arbeitsdienst (Servizio del lavoro) cominciarono a selezionare gli oggetti: portarono in strada i mobili che restarono lì per settimane a deteriorarsi sotto la pioggia e al freddo. Il “Dziennik Rozporządzeń” (“Bollettino delle ordinanze”) pubblicò un decreto emanato dalle autorità tedesche e datato 14 novembre 1942 che istituiva nel Governatorato generale cinque ghetti chiusi: a Varsavia, Cracovia, Leopoli, Radom e Bełżec. Tutte le altre località furono dichiarate “judenrein”. Il decreto imponeva a tutti gli ebrei che abitavano fuori dal ghetto di rientrarvi. In alcuni nacque una debole speranza. Ma nuovamente i tedeschi avevano vinto al gioco dell’inganno e della perfidia premeditata. Molti erano ritornati nel ghetto; molti altri erano stati scoraggiati dal decreto a uscirne; la loro vigile prudenza fu neutralizzata per poterli poi colpire ancora più brutalmente.
Il ghetto, anche così ridotto, continuò nonostante tutto a vivere la sua vita: una vita strana, artificiale. La vitalità della gente si affievoliva, si manifestava forse sotto altre forme, ma non si spegneva. Ogni giorno gruppi di operai uscivano dal ghetto per andare a lavorare alla costruzione del campo di Płaszów. Il futuro direttore del campo, Amon Göth, sostituto di Müller, li incalzava minacciando continuamente di sparare. Come si vide in seguito, doveva credere che l’assassinio e la morte del prossimo fossero cose di poco conto. E, agitando lo spauracchio di sanzioni, assillava anche lo Judenrat per la lentezza con cui eseguiva gli ordini. Spesso qualcuno, uscito per recarsi al lavoro, non faceva ritorno: trattenuto dalla direzione del campo, vi restava rinchiuso.
Furono questi i primi abitanti forzati di Płaszów.

 

Tadeusz Pankiewic, da “Il farmacista del ghetto di Cracovia”, Traduzione di Irene Picchianti, 2016, UTET – Fonte Gariwo

 

Le donne prigioniere trainano autocarri pieni di pietre – Campo di Plaszow, Polonia, 1944.

 

L’ingresso al campo di Plaszow, 1943-1944

 

Prigionieri ebrei ai lavori forzati nel campo di Plaszow, 1943-1944

 

 

 

 

 

 

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