Affabulazioni

I vagabondi

06.02.2023
“La storia dei miei viaggi non è altro che la storia di un malessere. Soffro di una sindrome che si può trovare facilmente in qualsiasi atlante delle sindromi cliniche e che, come afferma la letteratura specialistica, sta diventando sempre più frequente. La cosa migliore è far riferimento alla vecchia edizione del Libro delle sindromi, una sorta di enciclopedia di psicologia degli anni settanta. Per me rappresenta anche una fonte d’ispirazione continua.
Ma davvero esiste qualcuno che oserebbe ancora descrivere una persona nel suo insieme, in termini generali e oggettivi? Che ricorrerebbe con estrema convinzione al concetto di personalità? Che azzarderebbe una tipologia convincente? Non credo. L’idea di sindrome calza a pennello con la psicologia di viaggio. Una sindrome è piccola, trasferibile, occasionale, slegata da qualsiasi teoria statica. Si può usare per spiegare qualcosa e poi cestinarla: uno strumento conoscitivo monouso.
La mia si chiama Sindrome da Disintossicazione Perseverante. Per spiegarla nel modo più semplice, diremmo che si basa su un ostinato ritorno della coscienza a certe immagini, o addirittura su una loro ricerca compulsiva. È una variante della Sindrome del Mondo Cattivo, ultimamente molto ben descritta nella letteratura neuropsicologica come una particolare infezione trasmessa dai media. Si tratta in fin dei conti di un disturbo molto borghese. Il paziente passa molte ore davanti al televisore cercando con il telecomando soltanto i canali dove vengono trasmesse le notizie più terribili: guerre, epidemie e catastrofi. Poi, affascinato da quel che vede, non riesce a distogliere lo sguardo. I sintomi in sé non sono gravi e consentono una vita tranquilla se solo si riescono a mantenere le distanze. Non c’è una cura per questo fastidioso malessere; la scienza si limita qui a un’amara constatazione della sola esistenza della sindrome. Quando alla fine il paziente, spaventato da se stesso, arriva nello studio dello psichiatra, quest’ultimo gli dice di stare più attento al suo stile di vita, di smettere di bere caffè e alcolici, di dormire in una stanza ben areata, di coltivare l’orto, di ricamare o lavorare a maglia.
I miei sintomi si manifestano con un’attrazione verso tutto ciò che è rotto, imperfetto, difettoso, screpolato. Mi interessano le forme imprecise, gli sbagli nei lavori creativi, i vicoli ciechi. Ciò che avrebbe dovuto svilupparsi ma per qualche motivo è rimasto incompiuto, oppure al contrario si è sviluppato troppo. Tutto quello che è fuori regola, troppo piccolo o troppo grande, sovradimensionato o incompleto, mostruoso e ripugnante. Forme asimmetriche, che si moltiplicano, che traboccano, esplodono o al contrario si riducono dalla pluralità all’unità. Non mi interessano gli avvenimenti ripetitivi sui quali si concentra la statistica, quelli che tutti celebrano con un sorriso complice di soddisfazione stampato sul viso. La mia sensibilità è teratologica, filomostruosa. Ho l’incessante e faticosa convinzione che proprio qui la vera esistenza si rompa in superficie e riveli la propria natura. All’improvviso, una rivelazione casuale. Un timido “ops”, l’orlo della biancheria intima sotto una gonna plissettata alla perfezione. Uno schifoso scheletro di metallo che striscia fuori dal rivestimento di velluto; l’eruzione di una molla da una poltrona imbottita che smaschera spudoratamente l’illusione di qualsiasi morbidezza.”
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Hisao Kanno
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“I miei genitori non appartenevano propriamente a una tribù stanziale. Si erano trasferiti molte volte da un posto all’altro, fino a quando si fermarono per un periodo più lungo vicino a una scuola di provincia, lontani da qualsiasi strada che potesse definirsi tale e dalla stazione ferroviaria. Il solo uscire e superare la strada sterrata per andare in paese costituiva già un viaggio. Poi c’erano la spesa, le faccende burocratiche egli uffici comunali, il parrucchiere in piazza vicino al municipio, sempre con lo stesso grembiule lavato e candeggiato senza risultato, perché la tinta per capelli delle clienti gli aveva impresso macchie che sembravano ideogrammi cinesi. La mamma si tingeva i capelli e il papà l’aspettava nel bar Nowa, seduto a uno dei tavolini all’esterno, leggendo il giornale locale sul quale la rubrica più interessante era quella di cronaca nera, con notizie su scantinati depredati di marmellate di prugne e cetriolini.
Per tutto l’anno conducevano una vita sedentaria, quella strana vita in cui al mattino si ritorna su quanto si è lasciato incompiuto la sera prima, dove i vestiti si impregnano dell’odore dell’appartamento e i piedi infaticabili tracciano sentieri d’usura sul tappeto.”
“Volo da Irkutsk a Mosca. Si decolla da Irkutsk alle otto del mattino e si atterra a Mosca alla stessa ora – otto del mattino dello stesso giorno. Questo è il momento esatto in cui sorge il sole, quindi si vola per tutto il tempo all’alba. Si rimane in questo singolo istante, grande, tranquillo, espanso come la Siberia. Dovrebbe essere il momento per la confessione di un’intera vita. Il tempo scorre all’interno dell’aereo, ma non fuoriesce all’esterno.»
Il viaggio è una luce sempre accesa, è un’ansia, è una ricerca, il viaggio è la solitudine estrema e il suo contraltare. Il viaggio è una persona che ne incontra un’altra, il viaggio è la storia personale che si mescola a quella degli altri. Il viaggio è un odore, una vaga speranza, è una possibilità da rinnovare ogni giorno. Il viaggio è il fuso orario che cambia, un riparo, una doccia non fatta, un letto ricevuto in regalo. Il viaggio sono mani che si toccano, spalle che si sfiorano, sono gli aeroporti, i porti, sono i treni, sono le banchine delle stazioni.
I viaggi sono l’unica vera casa che abbiamo, sono tutto quello che impariamo, sono poi quello che lasciamo. Il viaggio è cultura ed è aver cura. Il viaggio è sradicamento, è una donna sola che asseconda il vento, è una nuova misurazione del tempo. Il viaggio è un abbraccio in un altro territorio, è una stanza dove non disfare le borse, è un libro trovato su un comodino, lo stesso libro lasciato su una panchina. Il viaggio non è mai un miraggio, sono le parole scambiate all’alba con uno sconosciuto, mentre aspettiamo un traghetto per chissà dove. Il viaggio non è mai il luogo dove si va, perché non è mai una destinazione, ma è più spesso un destino.”
Olga Tokarczuk, da “I vagabondi”, 2007
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Nell’immagine in evidenza: Bruno Catalano, “Les Voyageurs”

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