Magazzino Memoria

Canta il merlo sul frumento

22.03.2024
Il secondo episodio che considero all’origine del mio antifascismo avvenne molti anni dopo ed è drammatico.
A scuola con me e mia sorella venivano due sorelline che avevano tra loro la stessa distanza di età che noi due; eravamo anche amiche e ci frequentavamo per fare i compiti a casa, ora nostra, ora loro. Un mattino a scuola non ci sono e essendo l’uso del telefono per motivi scolastici interdetto ai piccoli, e non potendosi perciò né dettare i compiti, né le soluzioni di matematica o il testo della versione, andiamo a casa loro, e alla domestica che apre dico che siamo venute a portare i compiti ad Ester e a Ruth (questi erano i loro nomi che ci sembravano esotici). «I compiti non servono, tanto a scuola non vengono più», dice la domestica e io stupitissima domando: «Ma perché?» e mi si risponde: «Perché sono ebree». Non capisco, cioè le parole dette sono semplici e chiare, ma insieme sono insensate. Torniamo verso casa e io per non perdere prestigio davanti alla sorellina minore, dico irritatissima: «Quella lì deve proprio essere una ragazza di campagna, non sarà mica una malattia infettiva essere ebrei», dato che l’unica lunga assenza da scuola, capace di farti perdere l’anno, era quella per rosolia morbillo scarlattina tosse canina eccetera, le malattie esantematiche del periodo scolastico.
Poiché non ne vengo a capo, a tavola, secondo tempi modi e usanze di famiglia, racconto e domando mentre mamma impreca all’indirizzo di “cul là ch’al parla dal pugiò”, che parla dal balcone. Papà la prende alla lontana e incomincia a dire che hanno fatto una legge per la quale possono andare a scuola solo gli ariani. «Ma chi sono gli ariani?» chiediamo in coro e papà infine confessa: «Mi vergogno, ma siamo noi…» e ci narra la storia delle leggi razziali contro gli ebrei e anche gli zingari. Sono sconvolta, e dico: «E io mi vergogno di un Paese dove una perché si chiama Ester deve rimanere ignorante… mi sembra mostruoso».
Poi vedrò avvilita e mortificata scomparire, senza che si possano chiedere sue notizie, una signora moglie di un farmacista di Novara, nostra vicina, e poi altri, e infine sappiamo che anche Ester e Ruth sono riuscite a scappare in Svizzera, dove hanno parenti. Ma una signora amica di mamma, che sta ad Arona sul Lago Maggiore, viene gettata nel lago, incinta e con le mani legate, e basta: è quella che Hitler chiama soluzione finale, “Endlösung”, della questione ebraica e tutte e tutti noi di casa nostra e dintorni di amicizie e conoscenze finisce che pensiamo come mamma e in cuor nostro chiamiamo Mussolini “cul là”, e intanto abbiamo anche imparato che però non bisogna dirlo, se non parlando con persone fidate, siamo entrate o stiamo entrando nella clandestinità.
Lidia Menapace, da “Canta il merlo sul frumento”, 2016

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