Affabulazioni

Il vino nella Grecia antica

20.04.2024
“È difficile farsi un’idea di come fossero i vini greci. Le sparse notizie sono generiche. Sappiamo che il vino di Taso risanava i cuori, che i vini di Corinto, invece, costituivano una tortura, che il vino di Pramno poteva essere curativo (Nestore lo dà al medico Macaone ferito, “Iliade“, XI, 638-641) ma anche tossico, se opportunamente trattato (Circe se ne serve per trasformare i compagni di Odisseo in porci, “Odissea“, X, 233-237). L’unico dato certo in nostro possesso è che venivano abbondantemente medicati con bacche, erbe, frutta per evitare la fermentazione acetica. A tal fine si ricorreva anche alla pece vegetale per la preparazione dei vasi vinari; la sostanza resinosa impediva la degenerazione, sempre in agguato nei paesi caldi. Ancora oggi, in Grecia, è largamente diffuso il vino resinato, detto «retsina».
Oltre a tutto i Greci maltrattavano i loro vini, allungandoli con acqua. Il poeta lirico Anacreonte (VII sec. a.C.) chiede che gli si porti una coppa con dieci misure d’acqua e cinque di vino (fr. 33 Gentili) e considera tale miscela un “optimum”. Il vino puro era ritenuto fonte di stravolgimento mentale. Erodoto (“Storie“, VI, 84) riferisce che, secondo gli Spartiati, il re Cleomene (525-488 a.C.) era stato colto da pazzia, e morto di conseguenza, perché aveva molto frequentato degli Sciti giunti a Sparta per un’ambasceria ed era divenuto così un forte bevitore di vino non annacquato, come loro. Nelle “Leggi” (773 C-D) Platone dichiara:
“La popolazione di uno stato deve essere mescolata come il vino nella coppa, il quale appena versato ferve e spumeggia [= impazza], ma se viene temperato da un altro dio sobrio… dà corpo a una bevanda salutare e moderata.”
Forse era davvero pericoloso (e non solo per l’alto tasso alcoolico) bere vino puro. Il Ciclope Polifemo, trincandone a garganella, ci rimise l’unico occhio. Ho già menzionato due volte Eracle per quanto riguarda il cibo, in riferimento alla sua voracità e alla sua conoscenza dell’arte culinaria. Ma l’eroe famelico era sregolato anche nel bere. Nell’ “Alcesti” di Euripide (vv. 753-760) un servo della reggia di Admeto stigmatizza il comportamento di Eracle sia nello spolverare le vivande imbandite e richiedere insistentemente anche quelle che mancano sia nell’alzare il gomito. Agguantata una coppa di edera, tracanna vino puro così com’è prodotto dalla nera terra, ne tracanna finché il calore fiammeggiante del vino non gli si diffonde per tutte le vene. E ulula canzoni stonate [come del resto il su citato Ciclope].
Esisteva anche una norma per coniugare vino e acqua. Il meraviglioso Ateneo (“I sapienti a banchetto“, XI, 782 A) precisa, sulla scorta del filosofo Teofrasto, che nei tempi antichi nel cratere (il recipiente per mescolare) o nella coppa si versava prima l’acqua e poi il vino. In questo modo, infatti, il vino diventava più acquoso e dissetava meglio, diminuendo i rischi dell’ubriachezza. Più tardi si invertì il processo e si aggiunse l’acqua al vino (ottenendo così un’acqua insaporita…).
Nell’ “Esopo” di Alessi (il già citato commediografo del IV sec. a.C.) Solone, il saggio legislatore, sente elogiare da un personaggio, di cui non conosciamo l’identità, la raffinata e accorta abitudine degli Ateniesi di non bere vino puro nei conviti. E Solone spiega che non sarebbe facile:
“I carrettieri, infatti, per le strade lo vendono che è stato già allungato e non per guadagnarci, no, hanno a cuore il bene dei clienti e li difendono dal mal di testa che danno le crapule.”
Ma la realtà era più variegata. Se i maschi in Atene non si abbandonavano a libagioni con vino puro, le femmine, invece, avevano una decisa propensione per esso. Nella “Lisistrata” le rivoltose, siglando solennemente il “pactum sceleris” giurano sacrificando una coppa di vino di Taso che non vi verseranno mai acqua dentro (vv. 196-197). Nelle “Ecclesiazuse
Prassagora precisa che le donne al governo non rinunceranno alle loro precedenti, sane abitudini. Tra di esse amare il vino puro (v. 227). Del resto la nomea di schiccherone le Ateniesi se la portavano dietro.
Nelle “Tesmoforiazuse” («Donne alla festa di Demetra») si dichiara che farebbero di tutto pur di bere (v. 393). E una donna che partecipa all’assemblea si stringe affettuosamente al seno una bambina tutta fasciata che risulterà poi essere un otre di vino (vv. 733-734).
Presso i Greci il vino conobbe largo impiego farmacologico associato a sostanze vegetali. Sembra anche che venisse dato in abbondanza, in funzione di droga, ai soldati prima del combattimento. Plutarco, nella “Vita di Dione” (30), racconta che Dionigi il Giovane in una fase della sua lotta per riconquistare il potere a Siracusa:
“Prima imprigionò i Siracusani mandati a lui, in missione, dalla città e poi, il giorno seguente, all’alba, dopo aver riempito di vino schietto i mercenari li lanciò di corsa contro la fortificazione eretta dai Siracusani intorno all’acropoli.”
Il profeta Tiresia non specifica a Penteo (Euripide, “Baccanti“, 302) che Dioniso possiede qualcosa che è proprio di Ares, il dio della guerra? Tiresia intesse un elogio per così dire etico del vino (vv. 279 sgg.):
“Il vino spegne i dolori delle persone che soffrono, quando si riempiono della linfa dei grappoli, dispensa il sonno, oblio dei mali di ogni giorno, per le fatiche offre l’unico rimedio.”
Un elogio più ridanciano e laico viene stilato invece da Aristofane, nei “Cavalieri” (vv. 89-96). Il servo A indirizza l’aberrante servo B sulla giusta strada:
“Tu sei una ciarliera polla d’acque. Come osi denigrare il vino che aguzza le facoltà inventive? Conosci qualcosa che stimoli all’azione più del vino? Non lo vedi? Gli uomini, quando bevono, diventano ricchi, hanno successo, vincono i processi, trovano la felicità, aiutano gli amici. Vammi subito a prendere una caraffa di vino: voglio annaffiarmi il cervello, dire qualcosa di intelligente.”
Umberto Albini, da “Atene segreta”, 2004
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Immagine in evidenza: Giocatore di kottabos (che consisteva nel centrare un bersaglio con il vino rimasto sul fondo della coppa) raffigurato su una kylix (coppa) attica a figure rosse (c. 500 a.C.)

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