Linguaggi

Diari poetici

21.04.2024

“Forse un giorno scriverò il vero diario, fatto di pensieri atroci, di mostruosità e di voglia innaturale di uccidersi. Il vero diario è nella mia coscienza ed è una lapide tristissima, una delle tante lapidi che hanno sepolto la mia vita. È stato detto da qualcuno: «Chi ha vissuto più volte deve morire più volte». Frase stupenda, che riassume il terribile concetto della stupidità irata dell’uomo che non concepisce le colpe degli altri e tollera solamente le proprie.”

Alda Merini

 

******

 

Sono nata il ventuno a primavera

 

“Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenar tempesta.
Così Proserpina lieve
vede piovere sulle erbe sui grossi frumenti gentili
e piange sempre la sera.
Forse è la sua preghiera.”

Alda Merini, da “Da Vuoto d’amore”, 1991

 

*****

Diario bizantino

 

“Due mondi – e io vengo dall’altro.
Dietro e dentro
le strade inzuppate
dietro e dentro
nebbia e lacerazione
oltre caos e ragione
porte minuscole e dure tende di cuoio,
mondo celato al mondo, compenetrato nel mondo,
inenarrabilmente ignoto al mondo,
dal soffio divino
un attimo suscitato,
dal soffio divino
subito cancellato,
attende il Lume coperto, il sepolto Sole,
il portentoso Fiore.
Due mondi – e io vengo dall’altro.
La soglia, qui, non è tra mondo e mondo
né tra anima e corpo,
è il taglio vivente ed efficace
più affilato della duplice lama
che affonda
sino alla separazione
dell’anima veemente dallo spirito delicato
– finché il nocciolo ben spiccato ruoti dentro la polpa –
e delle giunture dagli ossi
e dei tendini dalle midolla:
la lama che discerne del cuore
le tremende intenzioni
le rapinose esitazioni.
Due mondi – e io vengo dall’altro.”
Cristina Campo, da “Passo d’addio”, 1956
*****
Pablo Picasso, “Ragazza di fronte allo specchio”, 1932
*****

A questo punto

 

“A questo punto smetti
dice l’ombra.
T’ho accompagnato in guerra e in pace e anche
nell’intermedio,
sono stata per te l’esaltazione e il tedio,
t’ho insufflato virtù che non possiedi,
vizi che non avevi. Se ora mi stacco
da te non avrai pena, sarai lieve
più delle foglie, mobile come il vento.
Devo alzare la maschera, io sono il tuo pensiero,
sono il tuo in-necessario, l’inutile tua scorza.
A questo punto smetti, strappati dal mio fiato
e cammina nel cielo come un razzo.
C’è ancora qualche lume all’orizzonte
e chi lo vede non è un pazzo, è solo
un uomo e tu intendevi di non esserlo
per amore di un’ombra. T’ho ingannato
ma ora ti dico a questo punto smetti.
Il tuo peggio e il tuo meglio non t’appartengono
e per quello che avrai puoi fare a meno
di un’ombra. A questo punto
guarda con i tuoi occhi e anche senz’occhi.”

 

Eugenio Montale, da “Diario del ’71 e del ’72”, 1973

 

*****

 

Vivere

Vivere? Lo facciano per noi i nostri domestici.
Villiers De L’Isle-Adam.

I

È il tema che mi fu dato
quando mi presentai all’esame
per l’ammissione alla vita.
Folla di prenativi i candidati,
molti per loro fortuna i rimandati.
Scrissi su un foglio d’aria senza penna
e pennino, il pensiero non c’era ancora.
Mi fossi ricordato che Epittèto in catene
era la libertà assoluta l’avrei detto,
se avessi immaginato che la rinunzia
era il fatto più nobile dell’uomo
l’avrei scritto ma il foglio restò bianco.
Il ricordo obiettai, non anticipa, segue.
Si udì dopo un silenzio un parlottio tra i giudici.
Poi uno di essi mi consegnò l’accessit
e disse non ti invidio.

II

Una risposta
da terza elementare. Me ne vergogno.
Vivere non era per Villiers la vita
né l’oltre vita ma la sfera occulta
di un genio che non chiede la fanfara.
Non era in lui disprezzo per il sottobosco.
Lo ignorava, ignorava quasi tutto
e anche sé stesso. Respirava l’aria
dell’Eccelso come io quella pestifera
di qui.

 

Eugenio Montale, da “Quaderno di quattro anni” (1973 – 1977)

 

*****

La Sicilia, il suo cuore

“Come Chagall, vorrei cogliere questa terra
dentro l’immobile occhio del bue.
Non un lento carosello di immagini,
una raggiera di nostalgie: soltanto
queste nuvole accagliate,
i corvi che discendono lenti;
e le stoppie bruciate, i radi alberi
che s’incidono come filigrane.
Un miope specchio di pena, un greve destino
di piogge: tanto lontana è l’estate
che qui distese la sua calda nudità
squamosa di luce – e tanto diverso
l’annuncio dell’autunno,
senza le voci della vendemmia.
Il silenzio è vorace sulle cose.
S’incrina, se il flauto di canna
tenta vena di suono: e una fonda paura
dirama.
Gli antichi a questa luce non risero,
strozzata dalle nuvole, che geme
sui prati stenti, sui greti aspri,
nell’occhio melmoso delle fonti;
le ninfe inseguite
qui non si nascosero agli dèi; gli alberi
non nutrirono frutti agli eroi.
Qui la Sicilia ascolta la sua vita.”

 

Leonardo Sciascia, “La Sicilia, il suo cuore”, da “Foglietti di viaggio”, 1952

 

*****

Marc Chagall “Moi et le village”, 1911

 

 

*****

 

Nella moltitudine

 

“Sono quella che sono.
Un caso inconcepibile
come ogni caso.

In fondo avrei potuto avere
altri antenati,
e così avrei preso il volo
da un altro nido,
così da sotto un altro tronco
sarei strisciata fuori in squame.

Nel guardaroba della natura
c’è un mucchio di costumi: di
ragno, gabbiano, topo campagnolo.
Ognuno calza subito a pennello
e docilmente è indossato
finché non si consuma.

Anch’io non ho scelto,
ma non mi lamento.
Potevo essere qualcuno
molto meno a parte.
Qualcuno d’un formicaio, branco, sciame ronzante,
una scheggia di paesaggio sbattuta dal vento.

Qualcuno molto meno fortunato,
allevato per farne una pelliccia,
per il pranzo della festa,
qualcosa che nuota sotto un vetrino.

Un albero conficcato nella terra,
a cui si avvicina un incendio.

Un filo d’erba calpestato
dal corso di incomprensibili eventi.

Uno nato sotto una cattiva stella,
buona per altri.

E se nella gente destassi spavento,
o solo avversione,
o solo pietà?

Se al mondo fossi venuta
nella tribù sbagliata
e avessi tutte le strade precluse?

La sorte, finora,
mi è stata benigna.

Poteva non essermi dato
il ricordo dei momenti lieti.
Poteva essermi tolta
l’inclinazione a confrontare.

Potevo essere me stessa – ma senza stupore,
e ciò vorrebbe dire
qualcuno di totalmente diverso.

Wisława Szymborska, “Nella moltitudine”, da “Attimo” 2002, in “La gioia di scrivere. Tutte le poesie (1945-2009)”

 

*****

Esercizi
“Per qualche misterioso motivo
i giorni si inclinavano verso il vuoto
penso che Dio si sia completamente stancato di noi
troppa è quest’assurdità, disse mentre ripiegava il grande
registro dell’umanità spenta.
Come un divario porgo l’anima
mi avvolgo come una lunga corda dimenticata in un vecchio pozzo
tutto quel che fa è colpire
i muri
colpire i muri
i muri.
Mi alleno a scrivere
come se tutto quel che ho scritto fosse solo una lunga lezione
che scrivo e cancello senza tregua.
Mi alleno a dimenticare
getto una pietra nel lago secco
e aspetto il rumore della caduta
ammetto senza colpa che sono un’ostinata illusionista
carico le parole con pesi eccessivi
aspetto che l’ispirazione mi cada in testa
senza gemere.
Non sono d’accordo con te
lo dichiaro alla vita,
alle persone
al marciapiede, al tuo volto triste,
al mare scuro di notte,
al paese agganciato come un becco sciocco
alle risate, al testardo oblio
alla tristezza mentre mi tira il vestito
non sono d’accordo senza sosta e senza spiegazioni.
Sono colei che alla fine si trova sull’orlo del volo e ritorna
con ali piegate e vestiti severi
sento la fame dei poveri nel vento
e il pianto delle persone in lutto
sento la tua strana malinconia e i tuoi sogni che hanno
smesso di volare
e dico che sia impossibile per questo tempo che gira su se stesso
come un pazzo ubriaco dimenticarti
poi ho preso dalla tua anima questa infermità
e l’ho impastata con la mano fino a diventare
un campo di crisantemi visitato da uccelli liberi.”
Samira Albouzedi (poetessa libica), “Dalla biografia dei giorni smarriti”, 2022 – Traduzione di Sana Darghmouni
*****
Jack Torcello, artista inglese
*****
La doppia immagine
“A novembre compio trent’anni.
Sei ancora piccola, hai solo tre anni.
Guardiamo le foglie gialle, sono stremate,
turbinano nella pioggia d’inverno,
cadono e s’acquattano. Ed io ricordo
i tre autunni che non hai passato qui.
Hanno detto che mai ti avrei riavuto.
Ti dico quel che mai saprai davvero:
le congetture mediche
che spiegano il cervello non saranno mai reali
quanto queste foglie abbattute.
Io, che ho tentato due volte d’ammazzarmi,
ti avevo dato un nomignolo
appena arrivata, nei mesi del piagnucolare;
poi una febbre t’è rantolata in gola
ed io mi muovevo come una pantomima
attorno al tuo capino.
Angeli brutti mi hanno parlato. La colpa,
dicevano, era mia. Facevano gli spioni
come streghe verdi versando nella testa la rovina
come un rubinetto rotto;
come se la rovina avesse allagato la pancia e sommerso la culla,
un vecchio debito che dovevo accollarmi.
La morte era più semplice di quanto credessi.
Il giorno che la vita t’ha restituito sana e salva
Ho lasciato le streghe rapire la mia anima in colpa.
Ho finto d’esser morta
finché uomini bianchi m’hanno spompato il veleno,
m’hanno messo senza braccia e slavata
nella manfrina di scatole parlanti e letti elettrici.
Ridevo a vedermi messa ai ferri in quell’hotel.
Oggi le foglie gialle
sono stremate. Mi chiedi dove vanno.
Ti dico che l’oggi ha creduto in se stesso, altrimenti cedeva.
Oggi, piccina mia, Gioia,
ama il tuo essere dove adesso vive.
Non esiste un Dio speciale cui rivolgersi; o se c’è,
allora perché t’ho fatto crescere altrove.
Tu non riconoscevi la mia voce
quando tornavo a casa a trovarti.
Tutti i superlativi
di alberi di Natale e vischi del futuro
non ti aiuteranno a sapere le feste che hai perduto.
Nel tempo che non amai me stessa
venni in visita a te su marciapiedi spalati,
mi tenevi per un guanto.
Dopo questo fu di nuovo neve.
2.
Mi hanno spedito lettere con tue notizie
e io cucivo mocassini che non avrei mai usato.
Quando cominciai a sopportarmi
andai a stare con la mamma. Troppo tardi,
troppo tardi, dissero le streghe, per stare con la mamma.
Non me ne sono andata.
Ma un ritratto mi son fatto.
Dal manicomio nel parziale ritorno
venni alla casa di mia madre a Gloucester.
Ed ecco come venni ad abbrancarla,
ed ecco come venni a perderla.
Mia madre disse, per il suicidio io non posso dar perdono.
Non l’hai mai potuto.
Ma un ritratto lei m’ha fatto.
Ho vissuto da ospite rabbioso,
parzialmente rammendata, bimba esorbitante.
Ricordo che mia madre faceva del suo meglio.
Mi portò a Boston per farmi cambiare il taglio.
Sorridi come tua madre, disse il capocciante.
Non mi pareva interessante.
Ma un ritratto mi son fatto.
C’era una chiesa là dove sono cresciuta,
là in bianchi armadi fummo inchiavati
come coro di marinai, o puritani, irreggimentati.
Mio padre passava col piattino per la questua.
Dissero le streghe, troppo tardi per esser perdonata.
E non fui propriamente perdonata.
Ma un ritratto m’hanno fatto.
3.
Quell’estate gettiti irrigui s’inarcavano
a pioggia sull’erba rivierasca.
Parlavamo di siccità
mentre il prato corroso dal salmastro
nuovamente raddolciva.
Per passare il tempo falciavo l’erba
e la mattina mi facevo fare il ritratto,
fissando il sorriso nella formalità.
Ti ho spedito il disegnino di un coniglio,
e una cartolina col Motif number one
come se fosse normale
essere madre ed essersene andata.
Hanno appeso il ritratto nella fredda luce
del lato nord, che bene mi si addice,
per farmi stare bene.
Soltanto mia madre s’ammalò.
Mi volse le spalle, come se la morte contagiasse,
come se la morte si riflettesse,
come se il mio morire l’avesse corrosa.
Ad agosto avevi due anni, ma era dubbio il calcolo dei giorni.
Il primo settembre mi guardò in faccia
e mi disse che le avevo attaccato il cancro.
Le mozzarono le colline dolci
e ancora non avevo la risposta.
4.
Quell’inverno lei tornò
parziale ritorno
alla sterile suite
di medici, nauseante
crociera di raggi X,
l’aritmetica delle cellule impazzita.
Parziale intervento,
braccio grasso, prognosi infausta,
li ho sentiti dire.
Durante le burrasche marine
lei si fece fare il ritratto.
Caverna di uno specchio,
appeso al lato sud;
una coppia di sorrisi, una copia di lineamenti.
E tu mi assomigliavi sconosciuto
viso mio, tu lo indossavi.
Dopotutto eri mia.
Ho svernato a Boston,
sposa senza figli,
niente di dolce da spartire,
con le streghe a fianco.
Ho perduto la tua infanzia,
tentato un altro suicidio,
subito il secondo hotel dei sigilli.
M’hai fatto un Pesce d’Aprile.
Abbiamo riso insieme, fu cosa buona.
5.
Per l’ultima volta m’hanno dimesso
il primo maggio;
laureata in casi mentali,
con l’assenso dell’analista,
un libro finito di versi,
la macchina da scrivere e le borse.
Quell’estate imparai a rimettere vita
nelle mie sette stanze,
andavo su barchette a cigno, al mercato,
rispondevo al telefono,
da brava moglie offrivo da bere,
facevo l’amore fra crinoline e abbronzature d’agosto.
E tu venivi ogni weekend. No, mento.
Venivi di rado. Fingevo che c’eri
bimba farfalla, porcellina
guance di gelatina,
tre anni di disobbedienza,
ma splendida sconosciuta.
E dovevo imparare
perché volevo morire invece che amare,
perché mi faceva male la tua innocenza,
e perché accumulo le colpe
come un giovane internista
rivela i sintomi e la certa evidenza.
Quel giorno d’ottobre che andammo a Gloucester
le colline rosse mi ricordavano
la pelliccia di volpe rossa sdrucita
in cui giocavo da bambina,
immobile come un orso, una tenda,
una gran caverna che ride, pelliccia di volpe rossa.
Oltrepassammo il vivaio dei pesci,
il baracchino dove vendono l’esca,
Pigeon Cove, lo Yacht Club,
Squall Hill, verso la casa in attesa
ancora, la casa sul mare.
E due ritratti sono appesi su opposte pareti.
6.
Al lato nord il mio sorriso al suo posto è fissato,
risalta nell’ombra il mio viso ossuto.
Mentre posavo lì cosa avevo sognato
tutta me negli occhi in attesa,
il giovane viso, la zona del sorriso,
trappola per volpi.
Al lato sud il suo sorriso al suo posto è fissato,
le guance vizze come orchidee appassite;
mio specchio beffardo, mio amore spodestato,
mia immagine prima. Mi occhieggia dal ritratto
quella testa di morte impietrita
che avevo sopraffatto.
L’artista ci fissò alla svolta;
si sorrideva inquadrate nelle tele
prima di scegliere strade da prima separate.
La pelliccia di volpe rossa doveva esser bruciata.
Mi decompongo sulla parete
come Dorian Grey.
E questa fu caverna di uno specchio,
una donna sdoppiata che si fissa
come se il tempo l’avesse impietrita
– due signore in terra d’ombra assise –
Hai dato un bacio alla nonna,
e lei ha pianto.
7.
Non potevo tenerti
tranne il weekend. Ogni volta venivi
stringendo il disegnino del coniglio
che ti avevo spedito. Per l’ultima volta
disfo i tuoi bagagli. Ci tocchiamo senza un contatto.
La prima volta hai chiesto il mio nome.
Ora rimani per sempre. Dimenticherò
che sbalzavamo cozzandoci come marionette
appese a fili. Non era l’amore
ridursi al weekend.
Ti sbucci le ginocchia, impari il mio nome,
traballando sul marciapiede piangi e chiami.
Mi chiami mamma e ricordo ancora mia madre,
che altrove, nei dintorni di Boston, muore.
Ricordo che ti chiamammo Gioia
per poterti chiamare gioia.
Arrivasti come un ospite imbarazzato
allora, tutta fasciata umida meraviglia
alla mia mammella pesante.
Avevo bisogno di te. Non volevo un maschio,
solo una femmina, un topino lattoso di bimba,
da sempre amata, da sempre esuberante
nella casa di se stessa. Ti chiamammo Gioia.
Io, che non fui mai certa d’esser femmina,
avevo bisogno di un’altra vita,
di un’altra immagine per ricordarmi.
E fu questa la mia più grave colpa;
tu non potevi curarla o lenirla.
Ti ho fatta per trovarmi.”
Anne Sexton, da “The Double Image in To Bedlam and Part Way Back” (“Manicomio e parziale ritorno”) – Traduzione di M. Camboni
*****
Anne Sexton con la figlia Gioia
*****
Tessera
“Il nome che porto come lo zaino del contrabbandiere
è di uno zio, lui Harry, Erri io.
Nell’estate del sessantasei volevo diventare
il legno di faggio di una sedia a sdraio
dove posava il corpo illuminato a gocce la ragazza.
Sono stato il due di spade e il niente di denari,
operaio salariato e anche gratuito.
Sono stato un lardo di malaria,
dieci chili deposti a scolare su branda,
un odore di gomma nelle ascelle,
sette gradi di là dell’equatore e quarantuno in corpo.
Lì denunciai un serpente verde sotto una pietra,
l’hanno ucciso.
Non ho avuto figli.
Per complimento una donna mi ha detto: che bel sangue ti esce.
Era rosso, rissoso, con le bollicine, ubriacato di ossigeno.
Amo il la minore in musica, lo strapiombo in parete.
Di tutta la macchina d’amore ho preferito i baci,
il primo, quello dopo, qualche altro non contato.
Molti amici in prigioni e negli esili
scontano il Novecento anche per me.
Nell’orecchio è rimasto qualche sparo vicino.
Alla mano basta una sera per dimenticare,
al resto di me no.
Erri De Luca, “Tessera”, da “Opera sull’acqua”,  2002
*****

In evidenza: Salvador Dalì, due pagine del suo diario

Lascia un commento